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(...) a suo agio con l'arte del governare e dotato di

Martedì 27 Luglio 2021
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(...) a suo agio con l'arte del governare e dotato di senso dello Stato? Letta ha dunque cercato d'irritare Salvini alleato de facto assai sgradito in tutti i modi, con la speranza che finisse per considerarsi un ospite indesiderato e dunque per mollare la presa. Nella sua testa, si sarebbe così tornati, dopo una brevissima parentesi istituzionale all'insegna dell'unità nazionale, ad una sorta di centro-sinistra (Pd e M5S) a guida tecnica, con la destra (Lega e FdI) tutta all'opposizione. Ma non ha funzionato. Al Pd, per accreditare la sua immagine di unica forza responsabile al governo, non è rimasto che accentuare il proprio lealismo nei confronti del Presidente del Consiglio, sino ad accettarne e condividerne qualunque decisione o scelta. Diversa la strada scelta invece da Salvini: appoggiare Draghi con convinzione ma anche con continui distinguo tattici, stando attento a non avvicinarsi mai alla soglia della rottura. Insomma, un partito di lotta stando al governo, laddove il Pci berlingueriano cui si fa risalire la formula del partito di lotta e di governo era semmai un partito di opposizione che aspirava al governo: un'evoluzione interessante, quella introdotta dalla Lega. Con la partecipazione a questo governo Salvini ha fatto un investimento di medio-lungo periodo. Gli industriali del Nord suoi storici elettori volevano, dopo le convulsioni e le incertezze del governo Conte, autorevolezza, stabilità e ripresa, esattamente quel che Draghi, meglio di altri, poteva garantire. Da qui la scelta pragmatica d'appoggiarlo anche contro il malumore della base leghista più radicale e a costo di subire nell'immediato una perdita nei consensi. Salvini aveva poi bisogno d'una ripulita alla sua immagine di politico considerato, anche fuori d'Italia, un po' troppo ambiguo nelle sue amicizie internazionali e spesso inaffidabile negli affari interni. Tutte operazioni che richiedono tempo e un clima politico che le favorisca: esattamente ciò che Draghi sta offrendo a Salvini e al suo partito, che se talvolta prende le distanze dal governo lo fa solo per ragioni elettoralistiche e tattiche, non perché abbia una qualche remota voglia di tornare all'opposizione. Tipico l'atteggiamento salviniano sull'obbligo di certificazione anti-covid: da un lato liscia il pelo alla protesta No vax, dall'altro fa sapere a tutti d'essersi vaccinato. Tipico ancora che sostenga nelle piazze i referendum sulla giustizia mentre in aula appoggia la riforma della giustizia firmata dalla Cartabia. Spregiudicata doppiezza? Forse, ma se paga diventa virtuosa pur restando moralmente discutibile. Diverso ancora l'atteggiamento verso Draghi del M5S segnato da un malumore reale e dal desiderio strisciante di sfilarsi specie ora che alla sua guida s'è insediato Giuseppe Conte, in cerca di rivalse dopo la sua defenestrazione da Palazzo Chigi. L'appoggio all'attuale governo, dopo l'implosione di quello giallo-rosso, l'ha voluto personalmente Grillo per estremo realismo: tenersi qualche poltrona gli è parso l'unico modo per evitare che il movimento, dopo due fallimenti consecutivi al governo e ancora senza una guida politica effettiva, si avvitasse in una spirale distruttiva fatta di litigi, spaccature e scissioni. Ma da subito i grillini hanno capito che nel programma di Draghi nessuno dei loro storici cavalli di battaglia avrebbe trovato grande spazio. Da qui, dopo i malumori sussurrati, le voci crescenti di ministri grillini intenzionati a dimettersi, di possibili sgambetti parlamentari, di chiarimenti che si vorrebbero ultimativi, infine di una possibile uscita dalla maggioranza appena inizierà il semestre bianco quirinalizio. Tutte azioni facili da minacciare, ma non semplici da realizzare. Tre atteggiamenti verso il governo dunque assai diversi: l'appoggio incondizionato, ormai quasi acritico, lettiano; il supporto tattico-strumentale salviniano; il sostegno sofferto, poco convinto ma senza alternative, contiano. Il problema è cosa arriva di tutto ciò ad un'opinione pubblica che da quando Draghi s'è insediato a Palazzo Chigi ossessionata com'è sempre più dalle paure legate alla pandemia e alla crisi economica dei tormenti dei partiti e delle loro tattiche sembra interessarsi sempre meno, mentre per converso sale sempre più, comprensibilmente, l'apprezzamento nei riguardi di Draghi. Il rischio di questa situazione uno stato d'emergenza divenuto perpetuo, un esecutivo che si riassume nel nome di chi lo guida si finisca per considerare normale, e anzi per apprezzare sempre più, l'idea che in democrazia si possa governare bene, cioè nell'interesse di tutti, senza troppo bisogno dei partiti (se non come portatori d'acqua in Parlamento) e delle loro astruse e divisive formule politiche. Come se il draghismo il migliore al comando col sostegno di (quasi) tutti fosse una soluzione politico-istituzionale destinata a durare in eterno e non invece l'occasione, per molti versi unica, che spetta ai partiti cogliere e sfruttare per riprendersi quel ruolo direttivo che col tempo hanno perso e per riconquistare la credibilità perduta. Draghi sta facendo il suo dovere in un momento difficilissimo per l'Italia, ma prima o poi lascerà. Spetta ai partiti approfittare di questa congiuntura per rinnovarsi e cambiare e per evitare di farsi trovare, ancora una volta, impreparati.
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