Rava: «Il mio jazz libero e mutevole»

Venerdì 6 Ottobre 2017
L'INTERVISTA
«I musicisti non li scelgo per lo strumento che suonano, li scelgo per la loro testa». Nasce dalle affinità elettive il New Quartet che Enrico Rava ha costituito con Gabriele Evangelista al contrabbasso, Francesco Diodati alla chitarra ed Enrico Morello alla batteria. Alla formazione si aggiungerà eccezionalmente la pianista Makiko Hirabayashi nella serata-evento che domenica 8 ottobre chiude la sezione Festival Aperto alla Biennale Musica (labiennale.org), mentre il gruppo tornerà a Nordest con i quattro elementi il 26 ottobre a Cormòns per il festival Jazz&Wine of Peace (con ospiti internazionali come Sun Ra Arkestra, Steve Coleman, James Brandon Lewis, William Parker & Hamid Drake - www.controtempo.org). Formazione dell'anno nel referendum Top Jazz 2015 di Musica Jazz, il New 4et è il gruppo costituito più di recente dal trombettista che è oggi il jazzista italiano più conosciuto a livello internazionale.
Rava, qual è il percorso che porta un musicista a cambiare i partner con cui lavora?
«Tutti i gruppi, tranne i Rolling Stones certo, hanno una nascita e una fine. Arriva un momento in cui non c'è più lo stimolo reciproco, ci si conosce troppo bene. Ma non ha nulla a che vedere con l'infedeltà e nemmeno con la ricerca. In realtà ha a che fare con la vita».
Quali percorsi sta seguendo il suo lavoro oggi?
«Sto lavorando in diverse direzioni. Con questo quartetto il lavoro si basa sul rapporto con le persone. Non mi interessava avere un chitarrista, ma lavorare con la persona Francesco Diodati, suonasse pure il trombone. E questo vale per tutti i musicisti con cui collaboro. Mi interessa la loro testa e la visione della musica, che sia più o meno vicina alla mia. Ecco perché poi un percorso si conclude, perché ciascuno sviluppa una nuova visione e magari le strade vanno in direzioni diverse».
A Venezia ci sarà anche la pianista Makiko Hirabayashi...
«È una presenza molto importante, ma è anche una cosa delicata. Aggregando una persona cambiano gli equilibri del gruppo e sarà interessante, anche perché sarà la prima e credo unica volta che accade».
Come si collocano le altre collaborazioni?
«Lavoro con autori di musica elettronica, in particolare con un guru come Matthew Herbert con cui spero di registrare al più presto. E poi, non spesso ma con grande piacere, suono con musicisti che fanno jazz più ortodosso, quello che definiamo standard. Non lo farei sempre, ma mi piace perché quelle son le son mie radici».
Qual è la sua visione della musica?
«La mia idea parte dalla conoscenza della storia del jazz, perché ci sono radici che non vanno abbandonate, ma è anche molto aperta e libera. Io lascio la massima libertà ai musicisti, pur dentro un canovaccio, perché è in questo che sta la modernità della cosa».
Cosa le hanno lasciato le grandi collaborazioni?
«Ho ricevuto qualcosa da ogni incontro. Dai musicisti più famosi agli allievi dei miei seminari a Siena. Da Alberto Barbieri ho ricevuto fiducia in me stesso, Steve Lacy mi ha aperto un mondo nuovo - allora si parlava di free jazz, improvvisava al cento per cento e prima non l'aveva fatto nessuno, è stata un'esperienza esaltante. Dal grande trombonista Roswell Rudd ho imparato l'importanza della tradizione, da Joe Henderson la profondità e da Pat Metheny ho capito alcune cose sulla relazione con il pubblico».
E qual è oggi la sua relazione con il pubblico?
«È sempre lo stesso. Io suono prima di tutto per me stesso, ma se non ci fosse qualcuno ad ascoltare la musica sarebbe qualcosa che muore. Per questo cerco sempre un rapporto forte con chi ascolta».
Gianbattista Marchetto
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