Quel nobile fotografo per Morosini

Giovedì 18 Aprile 2019
Quel nobile fotografo per Morosini
LA STORIA
Il Robert Capa della guerra di Morea era un nobile pistoiese di nome Ignazio Fabroni. Così come il fotografo americano ci ha lasciato indimenticabili immagini della guerra di Spagna e del secondo conflitto mondiale, Fabroni ha disegnato quel che vedeva al seguito della spedizione di Francesco Morosini in Morea (Peloponneso). Le 842 tavole che ha eseguito, e che oggi sono conservate nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze, costituiscono un notevole esempio di protoreportage giornalistico. La raccolta Album di ricordi di viaggi e di navigazione sopra galere toscane dall'anno 1684 all'anno 1687 si apre con una serie di disegni che riproducono la vita di bordo, quadretti ironici, di personaggi immortalati quasi tutti di spalle, o di persone distese che dormono o riposano: il «soldato», gli «schiavi», il «cappellano», una dama con fazzoletto sui capelli, ma dalla scollatura molto ampia, definita «amante», e poi ancora «Alì mozzo di poppa», «schiavi che si fanno la barba», personaggi nobili con nome e cognome, «il nano», «passeggeri armeni».
LA BASTARDA
Compaiono tra i disegni le rappresentazioni della bastarda generalizia di Francesco Morosini, la galea più grande delle altre (e perciò detta «bastarda») con i segni distintivi del comando: il fanò a tre luci (le galee sottili avevano un fanale a luce singola) e bandiere quadre con il leone di San Marco sugli alberi di maestra e trinchetto. Un altra tavola ritrae la flotta in uscita dal porto di Corfù: in primo piano, in posizione d'onore, i quattro legni del contingente toscano, dietro le galee veneziane e più indietro ancora i vascelli a vela. Una volta sbarcato, Fabroni ritrae scene di vita a terra, un «greco che scortica un cavallo», e militari, per esempio gli accampamenti dei diversi contingenti nazionali che compongono le truppe della coalizione antiturca: sassoni, veneziani, schiavoni, milanesi. Non mancano le prede di guerra, come la tenda del comandante ottomano, oppure «un cammello disegnato al naturale di quei venticinque che si tolsero con altro bagaglio al Seraschiero (il serakier era il comandante ottomano, gli animali sono in realtà dromedari, e sarebbe interessante capire che fine abbiano fatto, è probabile che la truppa si sia vista servire un rancio inusuale, in quei giorni...).
CARTOLINE DA CONQUISTA
Il tutto si chiude con una serie di tavole che ritraggono pesci e volatili dei territori appena conquistati. Morosini è al comando di una coalizione che nel 1686 conta 10.800 uomini: 2900 tedeschi dell'Hannover, 1500 tedeschi di Sassonia, 2000 milanesi, 2000 veneziani, 1200 schiavoni dalmati e 1200 tra fiorentini, papalini e maltesi. Pur considerando che i dalmati erano sudditi di San Marco, le truppe combattenti di terra erano formate per la maggioranza da non veneziani (diversa la situazione sul mare). A dirigere le operazioni viene chiamato Otto Wilhelm von Königsmarck, nato a Minden, in Westfalia (non lontano da Hannover) nel 1639. Intelligente, dotato di vasta cultura letteraria, di carattere vigoroso e dalla tempra del combattente, a soli quindici anni si laurea all'università di Jena. Si dedica tuttavia più alla spada che alla penna e la sua carriera è sfolgorante, tanto da farlo diventare feldmaresciallo mentre si trova al servizio della Svezia.
L'ABILE FELDMARESCIALLO
Ricopre proprio questa posizione quando viene arruolato dalla Repubblica di San Marco (e per questo viene spesso indicato come «svedese», mentre in tutta evidenza è tedesco). È un combattente valoroso, tanto che nel settembre 1686 i turchi gli ammazzano il cavallo che stava montando. I cavalieri di Santo Stefano, di fatto la marina militare del Granducato di Toscana, nel 1686 mandano quattro galee, una la Santo Stefano è al comando di Domenico Fabroni, nobile di Pistoia, Ignazio è con ogni probabilità un suo parente stretto. I toscani combattono soprattutto in Dalmazia, ma è evidente che Ignazio Fabroni partecipa alla campagna di Morea del 1686, quando le truppe della coalizione guidata dalla Serenissima conquistano il campo ottomano: il pistoiese, come detto, disegna la tenda del comandante, i dromedari, le due schiave e lo schiavo «mori» (africani) che costituiscono le prede di guerra.
CENTO DUCATI
Morosini, nel testamento, ricorderà le «quattro schiave more» lasciando una dote di cento ducati a testa nel caso in cui si fossero sposate. La presenza di cadaveri insepolti favorisce il diffondersi della peste, che miete altre vittime, questa volta tra i cristiani: «In questo tempo che aggiustano la piazza presa, noi ce ne stiamo in galera, dove è tutta l'armata sottile, lontana quattro miglia dalla città; lontani da terra, in aria cattiva e paludosa; e ogni giorno si vedon passare quando dieci, quindici e venticinque caiccate di morti, la maggior parte su le galeazze e galere pontificie, che si discorre il modo di ricondurle a Civitavecchia. Su le nostre non si sta male, ma scarsi di rinfreschi: sempre biscotto e alle volte si vede qualche cipolla», scrive un altro membro toscano della spedizione, Quinto Santoli. L'eccezionale reportage di guerra nel XIX secolo è entrato nella collezione di manoscritti del nobile pistoiese Filippo Rossi-Cassigoli che lo ha lasciato alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, dove tuttora si trova, abbastanza dimenticato. Questi disegni non sono mai stati esposti a Venezia, i 400 anni dalla nascita di Francesco Morosini potrebbero costituire una buona occasione per farlo.
Alessandro Marzo Magno
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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