Quattro secoli fa, il 29 Giugno 1620, nasceva a Napoli Tommaso Aniello d'Amalfi,

Domenica 5 Luglio 2020
Quattro secoli fa, il 29 Giugno 1620, nasceva a Napoli Tommaso Aniello d'Amalfi, meglio noto come Masaniello. Per qualche giorno fu il padrone della città, e il suo nome è sinonimo di ribelle. Benché la sua parabola sia durata pochi giorni, essa esprime alcune caratteristiche tipiche di ogni rivoluzione.
All'epoca Napoli era sotto il dominio dell'Impero Spagnolo, dissanguato dalla guerra dei trent'anni e tartassato nelle sue rotte marittime dalla intraprendete marina inglese che ne depredava i tesori provenienti dal Nuovo Mondo. Avendo sempre le casse vuote, le alimentava sfruttando i suoi domini, governati con gli stessi criteri di casa: cioè con un'imposizione tributaria inversamente proporzionale alla capacità contributiva dei sudditi. I signori non pagavano nulla, i pochi borghesi qualcosa, e il popolino tutto il resto. Ma mentre nella terra natia questa asfissiante oppressione era mitigata dall'orgoglio nazionale e da una fede fanatica, nel napoletano, dove la Patria era la famiglia e la religione una ritualità pittoresca, la pace sociale era precariamente affidata alla benevolenza dei Viceré, alla mitezza del clima e a un allegro fatalismo.
Nella città si pigiavano oltre trecentomila individui, perlopiù miserabili disoccupati, malnutriti e cenciosi, che campavano di geniali espedienti, di modesti reati e di occasionale carità. Nobili e clero, esenti da ogni carico fiscale, trovavano normale vivere alle spalle di questo sottoproletariato turbolento e inaffidabile, assopito come il Vesuvio, ma sempre sul punto di esplodere. Tendenzialmente apatici nei confronti del potere, i napoletani non si afcofaticavano alla ricerca del superfluo, quando potevano disporre del poco necessario. Ma se anche quest'ultimo veniva a mancare, il loro carattere sanguigno e impetuoso poteva scatenarsi alla prima occasione.
CASUS BELLI
E l'occasione arrivò quando il governo, per finanziare l'interminabile guerra europea, introdusse l'ennesima gabella, questa volta sulla frutta. Nel suo delizioso Miserere coi fichi Vittorio G. Rossi descrisse bene la psicologia di questa umanità intelligente e smaliziata, che si affidò a Masaniello per affrancarsi, se non dalla schiavitù, almeno dalla miseria. Questo capopopolo era un pescivendolo di famiglia povera quanto le sue idee politiche, ma sapeva arringare ed eccitare gli animi. Non aveva nemmeno un mestiere, ed era vissuto di lavoretti saltuari e di quel minuto contrabbando per il quale la moglie sedicenne era già stata arrestata avendo introdotto in città una calza piena di farina. La povertà e l'ingiustizia sono sempre i migliori catalizzatori delle rivolte. Così, quando il governo aumentò la gabella sulla frutta, Masaniello si improvvisò tribuno, e il 7 Luglio 1647 guidò l'assalto al palazzo del viceré. Costui si rifugiò in un convento, e concesse la revoca dell'odiosissima tassa.
APOCALITTICO
Esaltato dal successo, l'apocalittico agitatore aumentò le pretese, estendendole a radicali riforme sociali, impensabili in quel momento e in quel luogo. Per dimostrare che facevano su serio, le sue bande incendiarono alcuni palazzi nobiliari, distrussero i registri delle imposte e liberarono i prigionieri. Allarmato, il duca di Maddaloni assoldò dei briganti per uccidere il turbolento eversivo, ma l'impresa fallì, e la folla, dopo aver linciato gli attentatori, scannò il fratello del Duca, don Giuseppe Carafa. Il governo, intimorito e impotente, cedette di nuovo: nominò Masaniello Capitano generale, la moglie Bernardina si arrogò il titolo di viceregina ed entrambi furono oggetto di riverenze ed onori. L'ex pescivendolo tradusse questa investitura in apparati coreografici tanto ricchi quanto odiosi. Alternò atteggiamenti stravaganti a ostentazioni volgari, progettò opere faraoniche e cominciò a spedire al patibolo i suoi veri o presunti avversari. Condì queste crudeltà con banchetti dissoluti, e qualcuno insinuò che, durante uno di questi, gli fosse stato propinato un eccitante allucinogeno.
La sua eccentricità divenne follia: il governo, ripreso animo, assoldò dei capitani professionisti che finirono Masaniello a colpi di archibugio. Per accertarsi della morte, gli tagliarono prudenzialmente la testa, che fu portata al mandante nella più antica tradizione mediterranea.
IL MARTIRE
Napoli in primo tempo respirò, felice di essersi liberata di un simile individuo. Ma quando i prezzi ripresero a salire, e la nobiltà rialzò la testa, il popolino riabilitò l'immagine del suo portavoce, che divenne, come Cesare dopo l'orazione di Antonio, un martire vittima dell'invidia aristocratica. Ci furono altre rivolte, altre esecuzioni sommarie ed altre stragi. Le membra di Masaniello furono ricucite ed esposte come una reliquia. Il Viceré, temendo una nuova sommossa, fece ancora un voltafaccia, autorizzò funerali solenni e il corpo del ribelle diventò oggetto di venerazione.
L'ira antispagnola comunque non si spense, e sotto la guida di un nuovo capopopolo, Gennaro Annese, Napoli riuscì anche a cacciare la guarnigione. Dopo un breve intervallo di autogestione repubblicana il Re di Spagna mandò una poderosa flotta che riportò il domino, l'ordine, la bigotteria e le tasse. I napoletani si rassegnarono, in attesa di tempi migliori.
LA PARABOLA
La rivoluzione di Masaniello, come tutte le rivoluzioni, nacque per i vizi del potere e morì per quelli del popolo: come tutte le altre fu - secondo l'espressione di Rivarol «la prefazione sanguinosa di un libro mai scritto». Ed in effetti, dopo un inizio di massacri più o meno estesi, questi fenomeni si convertono nel loro contrario: convinte di portar la liberazione, le rivoluzioni generano la dittatura: quella inglese del 1640 portò Cromwell, quella francese Napoleone, quella bolscevica Lenin e Stalin, e quella fascista Mussolini. L'unica rivoluzione gloriosa, quella di Guglielmo d'Orange, non fu affatto una rivoluzione, ma un pacifico cambio di dinastia con l'avvio di una monarchia costituzionale.
In realtà quella di Masaniello fu, per natura e dimensioni, una semplice ribellione, e come tale fu schiacciata in poco tempo dagli spagnoli. Secondo Benedetto Croce essa finì «come tutti i tumulti plebei senza né capo ne coda, con un abbracciamento generale». Tuttavia, essa dimostrò ancora una volta gli orrori di questi scatenamenti emotivi: le stragi e le devastazioni degli esaltati, la volubilità sanguinaria della folla, l'ineluttabilità della repressione e soprattutto la megalomania degli umili, di reddito e di cervello, quando improvvisamente conquistano il potere. Un vizio che si rinnova continuamente, e di cui purtroppo continuiamo a subire, anche qui ed ora, le conseguenze funeste.
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