LA VISITA
VENEZIA La visita del patriarca Francesco Moraglia nel carcere femminile della Giudecca non ha formalità ma è, come spiegano le stesse detenute, l'incontro del padre con le sue figlie. Nella casa di reclusione femminile al momento ci sono 80 ospiti e due bambini. Con ciascuno di loro Moraglia si è fermato a parlare, ha stretto la mano, dato una carezza, un sorriso e un messaggio di speranza. Ai due bambini ha donato invece due grandi calze piene di dolci e caramelle. In cambio le carcerate gli hanno regalato un paio di pantofole rosse cucite nella loro sartoria, i prodotti dell'orto e i profumi; i volontari gli hanno donato una candela con incisi i loro nomi. Il patriarca, accompagnato dalla direttrice del carcere Antonella Reale, dal direttore della Caritas Stefano Enzo, da don Antonio Biancotto e dal cappellano del carcere padre Silvano, si è fermato a guardare a lungo il presepe allestito nella cappella: ai lati è una barca spezzata, ripescata da una remiera il giorno dopo l'acqua alta del 12 novembre; nella spaccatura, in centro, è capanna con la Sacra Famiglia, i pastori e i Re Magi. Un giubbotto salvagente richiama gli immigrati morti in mare. «Il presepio che abbiamo costruito - spiega Mary, una delle ospiti della struttura - vuole mostrare la nostra vicinanza alla città martoriata dall'acqua alta. Abbiamo sofferto anche noi per ciò che è successo. Il carcere è un luogo di dolore ma anche luogo dove esce il nostro io più profondo e più vero». «Questo luogo di sofferenza dobbiamo intenderlo come luogo di riscatto - ha affermato il patriarca all'omelia - Le mura che vi separano dalla città sono un fallimento di tutti: qualcosa nella vita della nostra comunità non ha funzionato. Rimango colpito quando le persone sono segnate dal rapporto con i loro genitori. Ci sono dei fondamentali della vita che se in qualche modo non sono rispettati creano sofferenze in tutti. Dobbiamo dare tutti contributi perché questo spazio non diventi solo un luogo di sofferenza, come è, ma diventi luogo di rinascita, di ripartenza».
Daniela Ghio
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA VENEZIA La visita del patriarca Francesco Moraglia nel carcere femminile della Giudecca non ha formalità ma è, come spiegano le stesse detenute, l'incontro del padre con le sue figlie. Nella casa di reclusione femminile al momento ci sono 80 ospiti e due bambini. Con ciascuno di loro Moraglia si è fermato a parlare, ha stretto la mano, dato una carezza, un sorriso e un messaggio di speranza. Ai due bambini ha donato invece due grandi calze piene di dolci e caramelle. In cambio le carcerate gli hanno regalato un paio di pantofole rosse cucite nella loro sartoria, i prodotti dell'orto e i profumi; i volontari gli hanno donato una candela con incisi i loro nomi. Il patriarca, accompagnato dalla direttrice del carcere Antonella Reale, dal direttore della Caritas Stefano Enzo, da don Antonio Biancotto e dal cappellano del carcere padre Silvano, si è fermato a guardare a lungo il presepe allestito nella cappella: ai lati è una barca spezzata, ripescata da una remiera il giorno dopo l'acqua alta del 12 novembre; nella spaccatura, in centro, è capanna con la Sacra Famiglia, i pastori e i Re Magi. Un giubbotto salvagente richiama gli immigrati morti in mare. «Il presepio che abbiamo costruito - spiega Mary, una delle ospiti della struttura - vuole mostrare la nostra vicinanza alla città martoriata dall'acqua alta. Abbiamo sofferto anche noi per ciò che è successo. Il carcere è un luogo di dolore ma anche luogo dove esce il nostro io più profondo e più vero». «Questo luogo di sofferenza dobbiamo intenderlo come luogo di riscatto - ha affermato il patriarca all'omelia - Le mura che vi separano dalla città sono un fallimento di tutti: qualcosa nella vita della nostra comunità non ha funzionato. Rimango colpito quando le persone sono segnate dal rapporto con i loro genitori. Ci sono dei fondamentali della vita che se in qualche modo non sono rispettati creano sofferenze in tutti. Dobbiamo dare tutti contributi perché questo spazio non diventi solo un luogo di sofferenza, come è, ma diventi luogo di rinascita, di ripartenza».
Daniela Ghio
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