NEW YORK
La voce gli vibra dalla commozione e allo stesso tempo dall'eccitazione.

Mercoledì 16 Maggio 2018
NEW YORK
La voce gli vibra dalla commozione e allo stesso tempo dall'eccitazione. La notizia della morte di Tom Wolfe è stata diffusa dalle agenzie di stampa da pochi minuti, e Gay Talese ne è scosso ma al tempo stesso galvanizzato, mentre sulla sua scrivania i telefoni squillano all'impazzata. Wolfe era molto più che un suo coetaneo: era una sorta di anima gemella che lo ha accompagnato in una vita professionale perfettamente parallela. Dalle redazioni dense di fumo e di piombo dei giornali newyorkesi degli anni '50, alla gloria della pubblicazione di romanzi bestseller, passando per lo stile graffiante e le critiche al vetriolo per l'intera categoria degli scrittori paludati. Con la morte di Wolfe, Talese rimane l'ultimo rappresentante di una generazione di scrittori sanguigni che hanno raccontato il processo tumultuoso che ha scolpito la città di New York e l'America del dopoguerra.
Quando vi eravate conosciuti?
«Deve essere stato il 1961 o forse l'anno dopo, quando lui è entrato a lavorare all'Herald Tribune. Io avevo già a quel punto quasi dieci anni di anzianità al New York Times dove ero entrato fresco di laurea come copy boy e avevo già fatto un po' di carriera. Ci siamo piaciuti subito, e siamo rimasti amici per la vita».
Siete stati due enfant terrible per il modo in cui vi siete espressi riguardo alla professione.
«Eppure per quanto abrasiva e satirica fosse la sua scrittura, nella vita privata non l'ho mai sentito esprimere parole di disprezzo per nessuno dei nostri colleghi. Era un uomo mite e misurato, quasi timido in pubblico. Un grande osservatore che si impegnava con riluttanza nella conversazione».
Quale è stato il suo maggiore merito letterario?
«L'essere passato dalla professione di giornalista a quello di scrittore, un salto che molto raramente viene compiuto con successo. Tom l'ha compiuto quasi con rabbia, infastidito dall'insularità e dalla sacralità che circondava molti degli autori contemporanei. L'isolamento li portava ad un processo introspettivo nella loro scrittura, incapaci come erano di conoscere intimamente il mondo nel quale vivevano. Wolfe ha infrangere quella barriera, e ha portato nella letteratura l'umanità con la quale era stato in contatto da giornalista. I germi della sua scrittura erano già nello stile del nuovo giornalismo che aveva imposto sulle pagine dell'Herald: raffinato e pieno di costruzioni letterarie. Quando lo ha trasportato sui libri, è riuscito immediatamente a imporsi come una delle personalità più importanti della sua generazione».
Quanto eravate vicini nella vita privata?
«Andate a guardare il mio sito privato sul web. Nella prima pagina campeggia una foto che ci vede ritratti insieme. Averlo perso mi fa sentire un gran vuoto, come quando ho visto altri compagni di viaggio: Norman Mailer, Jimmy Breslin e Hunter Thompson andarsene via. Joan Didion è ancora viva, io sono rimasto qui a parlare degli altri. Anch'io ho 86 anni, e sento che uno di questi giorni sarà qualcun altro a parlare di me. Però devo confessarlo: ci siamo divertiti, ci siamo divertiti tanto!».
Ci auguriamo che quel momento sia lontano. Quando vi siete visti l'ultima volta?
«È stato quattro mesi fa. L'ho invitato a cena, e ricordo bene che il ristorante era Amaranth, sulla sessantaduesima. Avevo invitato anche Don DeLillo e le tre rispettive signore. Wolfe e DeLillo non si erano mai incontrati prima, quindi mi sembrava l'occasione giusta per fare ad entrambi questo regalo. Tom si era presentato con un lungo bastone, come la mitra di un vescovo, sormontato da una testa di lupo scolpito nel legno. Era ricurvo, piegato dal dolore di una sorte di meningite spinale che lo aveva colpito negli ultimi anni. Ma era rimasto intatto nelle sue maniere di gentleman ottocentesco. Sia lui che DeLillo erano molto parchi di parole. La conversazione per fortuna è stata sostenuta dalle nostre donne».
Ha una parola di commiato per il suo amico?
«Un buono scrittore sopravvive alla sua morte e qualcuno non muore mai, come Tolstoj, come Hemingway. Tom è stato un eccellente scrittore, e i suoi libri saranno con noi a lungo, più di quanto potrò essere io a conservarne il ricordo e l'affetto. So che ha lavorato fino all'ultimo, oltre la data di pubblicazione del suo ultimo libro, l'anno scorso. Chissà che i suoi cassetti non ci riservino ancora qualche sorpresa».
Flavio Pompetti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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