Marco Goldin

Van Gogh. Mi vedete, dottore? C'è una forza in me. Mi

Domenica 23 Febbraio 2020
Marco Goldin

Van Gogh. Mi vedete, dottore? C'è una forza in me. Mi porta a camminare ogni giorno, da mattina a sera, in questo giardino, perché ancora non volete che io esca oltre quel muro di cinta. È cominciato giugno, sono qui da un mese ormai. Gli alberi sono pietre preziose in fiore e si specchiano nel cielo. Gli uccelli cantano all'alba. Li sento dalla mia piccola camera.
Vorrei uscire da qui e abbracciare quella montagna che anche voi vedete lassù. Farmela scivolare addosso come quando qualcuno ti posa un mantello sulle spalle e ti cinge. Ti avvolge con la dolcezza della prima stella della sera. Non vi siete mai accorto, dottore, di come essa brilli in alto, sopra la cima del monte Gaussier? E poi nell'azzurro buio che riluce spanda tutto il suo chiarore sul mondo?
Peyron. Sapeste, Vincent, quanti ne ho visti passare qui dentro. Eppure, mai nessuno come voi. Mai nessuno così pieno di una vita trafitta dal colore, urlata quando c'è da urlare, di lacrime quando c'è da piangere. Una vita che te la ritrovi in un angolo e poi in un momento vicina al sole.
Ne ho visti tanti camminare lungo i viali di questo giardino, con la testa tra le mani. Ma voi siete diverso, avete lo sguardo dritto sul mondo e sorridete da solo quando vedete la luce che filtra tra i rami degli alberi. E si scorge l'azzurro che dilaga sul verde dell'erba. Come un mare di piccole onde. Poi vi prende la malinconia e qualche volta non sapete più dove andare e in quale posto del mondo voi siate.
Van Gogh. Dottore, io so bene dove sono e dove vorrei andare adesso. Lasciatemi, per favore, oltrepassare quel muro, andare a distendermi sotto gli ulivi. Quando da Arles sono arrivato qui, con il reverendo Salles, abbiamo camminato dalla stazione di Saint-Rémy per mezzora. A mano a mano si avvicinavano le montagne, le Alpilles, che avevo davanti a me. Si frantumavano in rocce scoscese, ricoperte di una vegetazione scura. E brillavano. Poi siamo passati sotti i cipressi e di lontano abbiamo visto i primi vigneti bassi. Ho visto tutto questo e l'ho amato come si ama lo sguardo di qualcuno quando ci s'innamora. È un istante, e non si può far nulla per resistere. Non si vuole fare nulla.
Questa natura mi è venuta addosso così, come uno schiocco, come il colpo di una frusta nel cielo alto levato. Questa natura che voglio dipingere, ma prima di tutto voglio andarci dentro, camminarla e camminare ancora. Miglia e miglia sotto le montagne, un sogno che continuo a cullare in me ogni mattina, quando sorge il sole e lo guardo dalla mia finestra con le sbarre. Sento arrivare dalla cucina l'odore insopportabile del cibo e non ho voglia di stare in mezzo agli altri malati. Non ho voglia di capire che anche io dovrei essere come loro. Preferisco il mio tozzo di pane e mettermi a disegnare sull'erba, appoggiato al tronco di un albero sopra cui si stringa l'edera.
Peyron. Avete disegnato tanto in queste settimane, da quando siete qui. Arrivato da Arles quasi senza colori e con quattro tele soltanto. Vostro fratello mi ha scritto pochi giorni fa. Ha spedito da Parigi un baule con rotoli di tela e colori e pennelli. Manca poco e poi potrete ricominciare a dipingere. Lo so, lo vedo quanto vi possa mancare il colore, ma sento che il vostro tempo è vicino e poi vi darò il permesso di uscire da qui.
Conosco un piccolo campo di grano, non lontano da dove siamo. Vi piacerà molto. Non ve lo mostrerò, lo troverete da solo la prima volta che camminerete al di fuori di quel portone, quando il signor Trabuc avrà avuto l'ordine di lasciarvi andare. E io v'immagino già con la vostra piccola sacca con il pane e il latte e il cavalletto sulle spalle. E una tela in una mano e la cassetta dei colori nell'altra. V'immagino già e mi viene voglia di dirvi, Vincent andate pure.
Van Gogh. Credetemi, dottore, non vorrei altro che andare. Camminare e poi distendermi in mezzo all'erba, nel profumo della sera che viene. E farmi sovrastare dalle stelle, le mie stelle. Puntare lo sguardo su una soltanto e tutto attorno il gorgogliare della luce dell'oro mentre la notte si è fatta scura. Puntare i miei occhi su una stella soltanto, e parlare con lei come si parla con chi appare a una svolta di strada. E non avresti mai pensato di incontrare ancora qualcuno, mai pensato di vedere una nuova stella.
Quando viene la sera i profumi salgono nell'aria e ci s'inebria. E giungono fragranze di fiori. E rumori e visioni d'animali. Viene la vita nella sua pienezza, come un suono, un lontano e dolcissimo rintocco di campana dell'infanzia. Viene tutto questo e non vorrei altro che dipingere, mentre mi prende quel poco di malinconia che mi fa restare ancora al mondo. Che mi fa restare a guardare. A guardare quello che c'è fuori da queste mura dell'istituto.
Peyron. Vi ricordate quando siete arrivato qui, con il reverendo Salles? Vi ho detto subito che la vostra sola medicina sarebbe stata continuare a dipingere. Sentire il ritmo del vostro respiro e respirarlo, quel respiro. Inalare l'aria della sera e della notte, magari sotto la luna. Sapete, quando si spande la luce della luna sulla terra e sul mondo pare ogni volta che un miracolo accada. Io vi guardo e so che voi, Vincent, vivete di miracoli.
Van Gogh. Dottore, non c'è in me una sola fibra che non si tenda verso questo abbraccio, fatto di carne e di sogni. Fatto di visioni di natura. Fatto di occhi che mi guardano. Occhi che mi proteggono. Gli occhi di mio padre, gli occhi di mia madre. Gli occhi di Theo. Gli occhi di chi mi vuole bene, e non so contare quanti siano. Così come non so contare stanotte le stelle nel cielo.
(1.continua)
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