«Lingua veneta? È il veneziano»

Domenica 17 Marzo 2019
«Lingua veneta? È il veneziano»
LA STORIA
La lingua veneta non esiste, esisteva invece la lingua veneziana, ma oggi anche il veneziano si può considerare un dialetto. Lo sostiene Lorenzo Tomasin, veneziano, docente di filologia romanza e di storia della lingua italiana all'università di Losanna, autore del fondamentale Storia linguistica di Venezia (Carocci) e che ora progetta un vocabolario storico-etimologico del veneziano. Si tratta del complemento del Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio: di ogni voce riportata in quell'opera saranno specificate la storia e l'etimologia. Partiamo dal veneziano. Tomasin spiega che esistevano numerose varietà linguistiche sviluppate localmente dal latino. «Alcune di queste varietà», osserva il linguista, «hanno fatto più carriera di altre, sono state messe per iscritto molto presto e questo consente di ricostruirne dettagliatamente la storia. Il veneziano era correntemente usato, almeno nella lingua parlata, da uno stato. I documenti si compilavano in veneziano fino al XVI secolo e anche dopo lo si ritrova in qualche forma. Marin Sanudo, a inizio Cinquecento, scriveva in veneziano o in italiano? La risposta non è univoca, tanto che i suoi testi sono stati usati per comporre il Dizionario storico della lingua italiana.
ALLA CADUTA DI VENEZIA
In ogni caso, fino alla caduta della Serenissima le leggi erano scritte in un italiano che non era uguale a quello di Firenze o di Napoli. Il veneziano ha dalla sua che è una delle varietà meno lontane dall'italiano comune». «Non possiamo dimenticare», aggiunge Tomasin, «che l'italiano è sì una lingua a base toscana, ma è stato codificato e sancito a Venezia, nella prima metà del Cinquecento. Tra coloro che contribuirono in maniera determinate a codificarlo ci sono vari veneziani, tra loro Pietro Bembo, e le tipografie veneziane che in quel periodo stampano più libri che ovunque in Italia». «I dialetti sono varietà», sostiene Tomasin, «di solito prive di tradizione letteraria; il veneziano, invece, ha una tradizione che non ha nulla da invidiare a quella di altre lingue europee. Ovviamente Venezia non è l'unica città d'Italia a sviluppare una tradizione letteraria ininterrotta, e sottolineo ininterrotta, dal Medioevo ai giorni nostri. Questo vale per il napoletano e, pur con qualche differenza, per il romanesco, tutte varietà che fanno parte del club di dialetti che non possono essere considerati pari agli altri. Il toscano ha, a differenza di tutti, una massa enorme di autori che lo scrivono pur non essendo toscani; Bembo, per dire, scrive in toscano. I non veneziani che scrivono in veneziano, invece, sono pochissimi; mi viene in mente un siciliano del Seicento che compone in veneziano, Vincenzo Belando».
DIVENTARE LINGUA
Oggi però le cose sono cambiate. «Negli usi che se ne fanno nel mondo attuale, il veneziano ha assunto le caratteristiche di un dialetto: ha un ambito d'uso limitato, si scrive solo per determinate funzioni, non si può dire sia generalmente usato. Ciò non significa che sia morto: alcune varietà risorgono e si rinforzano, come accaduto per provenzale e catalano, ma ciascuno fa storia a sé». Le strade per diventare lingua sono variegate. Per esempio si può stabilire che una lingua esista per decreto, com'è stato fatto negli anni Ottanta in Svizzera per il romancio. «Tutti erano d'accordo che nei Grigioni», continua Tomasin, «si parlassero dialetti affini ma non coincidenti. A partire da uno di essi si è creata artificialmente una lingua, che è diventata la quarta lingua nazionale della Svizzera. Il veneto, invece, non è mai stato riconosciuto come varietà regionale. Per secoli nessuno ha mai rivendicato l'esistenza di una lingua veneta diversa dal veneziano: c'erano il pavano, il trevigiano, il veronese; ma la varietà di riferimento era sempre quella della città che non a caso veniva chiamata Dominante. Il veneto come lingua non esiste nemmeno glottologicamente, nel senso che se è vero che i dialetti dell'area che oggi si chiama Veneto hanno vari caratteri comuni, non esiste una varietà che possa considerarsi comune a tutta l'area. Quando parlano in dialetto, oggi i padovani parlano padovano, i veneziani veneziano, i trevigiani trevigiano; ovviamente si comprendono tra loro, ma questo non significa nulla visto che anche un italiano e uno spagnolo possono intercomprendersi con un minimo sforzo parlando ciascuno la propria lingua».
VENETO CONCETTO MODERNO
«Aggiungo», ribadisce Tomasin, «che quello di Veneto è un concetto moderno. Ai tempi della Serenissima veneto significava semplicemente veneziano, il dialetto veneto era sinonimo di veneziano, il Veneto è un nome di fatto creato assieme alla regione amministrativa dopo l'ingresso nel regno d'Italia. Altrove è andata diversamente: in Piemonte esiste una varietà comune, certo dominata dal torinese, ma che viene riconosciuta come piemontese anche a Cuneo o a Asti. In Veneto non è accaduto nulla del genere. Parlare di un idioma veneto unico oggi è fuori dalla realtà: per avere una lingua c'è bisogno di un minimo di stato di servizio». Ora veniamo alla lengoa vèneta che sembra tanto affascinare. «Sono stato più volte consultato da enti pubblici», precisa Tomasin, «e ho sempre risposto che nel Veneto c'è un dialetto che ha una storia enorme, con un vocabolario, quello del Boerio, che tutto il mondo ci invidia. Che senso ha scalzarlo con una varietà inventata oggi e frutto di una mescolanza artificiale, un missioto? Almeno il romancio è legato a una delle varietà esistenti. Questa lingua non è parlata da nessuno. Se si entra in una biblioteca, quanti testi si trovano in lingua veneta? Due? Tre? In padovano? Qualche decina, soprattutto grazie a Ruzante. In veneziano? Centinaia. Vogliamo cominciare oggi? Benissimo, però ci vediamo tra cinque secoli. La lingua veneta sta al veneziano come l'esperanto sta al latino: una bellissima idea, ma il latino era già lì da duemila anni».
IL LINGUISTA SCOZZESE
Tra i fautori della lingua veneta è spesso citato il linguista scozzese Ronnie Ferguson, che Tomasin ha naturalmente letto (il testo è in inglese, fra l'altro). «Ferguson sa che il veneziano medievale», spiega Tomasin, «ha caratteristiche che lo distinguono rispetto alle varietà vicine, e le spiega come frutto della mescolanza di popolazioni di lingue diverse che affluirono in laguna per dare vita alla città. Un'ipotesi plausibile. Ma l'equivoco è confondere l'idea del veneziano originariamente misto con un veneto moderno misto. Prendere un pezzo di qua, un pezzo di là, un pezzo dall'iperuranio, è cosa ben diversa, artificiale, rispetto alle mescolanze che avvengono naturalmente e in tempi lunghi. Si può provare, beninteso: ma credo poco ai miscugli realizzati in internet da parte di qualche apprendista stregone della linguistica».
Alessandro Marzo Magno
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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