LA PELLICOLA
Immaginiamoci un giovane regista di origini trevigiane, che si sposta

Giovedì 5 Agosto 2021
LA PELLICOLA
Immaginiamoci un giovane regista di origini trevigiane, che si sposta per studio e poi per residenza a Praga, e che un giorno decide di girare un film in Bosnia su tre fratelli, pastori adolescenti che vivono tra i monti, temporaneamente senza padre, finito in carcere per due anni al suo rientro dalla Siria, dov'era andato a combattere a fianco dell'Isis, lasciando così i ragazzi crescere e trovare la loro strada da soli: finiamo di immaginarlo, perché il giovane regista si chiama Francesco Montagner, il film ha per titolo Brotherhood (fratellanza) e il festival di Locarno ha deciso di selezionarlo e portarlo in riva al lago Maggiore, dove è atteso per lunedì 9 nella sezione Cineasti del presente.
«Ho diviso la mia infanzia tra Treviso e Monastier, poi iniziando ad amare il cinema, mi sembrava che l'Accademia di cinema Famu a Praga, dove hanno studiato tra gli altri Milo Forman e Emir Kusturica, fosse una destinazione didattica importante. E così è stato. Cercavo soprattutto un'esperienza internazionale. Adesso sono docente proprio in quella scuola».
PRAGA, LA SCUOLA
Certo la vita tra Monastier e Treviso, dove comunque Montagner torna 4/5 volte l'anno per riabbracciare i familiari, è indubbiamente stretta: «L'esperienza del documentario mi ha sempre attratto e dopo l'esperienza di Animata resistenza, pensato e girato con Alberto Girotto che finì premiato alla Mostra di Venezia nel 2014 come miglior documentario sul cinema, decisi di restare a Praga, imparare una lingua slava, conoscere popoli che ci sono vicini e forse conosciamo sempre poco, e di capire cosa fare da grande».
4 ANNI DI LAVORO
E così è nata l'idea di Brotherhood: «Sì, volevo trovare soggetti che stimolassero la mia personale ricerca di mondi e temi da approfondire. Una sera guardando un programma di Michele Santoro in televisione, sentii parlare di Ibrahim Deli, predicatore islamico radicale che era finito sotto processo per terrorismo. Ho cercato quindi i contatti con quella famiglia, dove oltre al padre c'erano anche i tre giovani figli. Mi interessava quel mondo bucolico, dalle tematiche complicate, che un po' ricordava la terra e l'ambiente dei miei nonni e bisnonni, chiedendomi: come sarei stato io al posto di quei ragazzi, cosa avrei fatto con un padre veterano di guerra, con tutto quell'odio da portarlo in Siria a combattere una guerra atroce dalla parte sbagliata? Volevo capire da dove nasceva quell'odio. L'inizio non è stato facile, il primo incontro molto freddo: il padre-padrone era diffidente verso me, al contrario dei ragazzi con i quali ho avuto subito una bella intesa, forse per via anche delle nostre età più vicine. Dal 2015 abbiamo girato poi per 4 anni, a intervalli più o meno regolari. Ogni 2-3 mesi restavo lì una settimana, troupe tutta maschile come la storia, come si può ben capire. Il film è anche una favola, i ragazzi lo hanno girato come un gioco, penso si veda molto la loro spontaneità, anche perché fare i pastori, forse non solo lì, è di una noia mortale. Hanno caratteri diversi, speranze diverse e la presenza autoritaria di un padre così radicale, anche su tematiche religiose, condiziona il percorso verso la propria maturità».
E ora questo film, prodotto da Nutprodukce e la friulana Nefertiti di Nadia Trevisan e Alberto Fasulo, con Rai Cinema, sta qui a Locarno: «Sono felice, è un festival importante e non vedo l'ora di incontrare il pubblico. Il cinema per me è tantissimo: Olmi è stato forse il mio riferimento più importante, ma anche il modo di raccontare di Minervini mi stimola molto, come quello del messicano Carlos Reygadas, al pari dei fratelli Dardenne». C'è tutto per essere fiduciosi. Specie a 32 anni.
Adriano De Grandis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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