L'INTERVISTA
Tra Venezia e campagna, passato e presente, nobili della Serenissima

Domenica 24 Settembre 2017
L'INTERVISTA
Tra Venezia e campagna, passato e presente, nobili della Serenissima e imprenditori del Nordest. C'è tutto il suo mondo in L'inventore di se stesso, l'ultimo romanzo del veneziano Enrico Palandri edito da Bompiani. Scrittore e docente, Palandri si divide a metà tra la College University di Londra e Ca' Foscari, ma anche tra narrativa e insegnamento. Dopo esordi illustri - si è formato al fianco di Umberto Eco, Gianni Celati e Giuliano Scabia - ha scritto romanzi, sceneggiature e saggi.
Chi è l'inventore di se stesso?
«Siamo tutti inventori di noi stessi. Nel ricostruire storie familiari in remote e improbabili genealogie oppure nel modo in cui leggiamo la storia di nostro padre e di nostra madre. Due fratelli vedono gli stessi genitori sempre in modo diverso. In una certa misura se li inventano per cercare di capirli e diventare a loro volta padri e madri. Ma ci inventiamo anche nei titoli professionali che conquistiamo, dottori, avvocati o professori, o che non abbiamo o perdiamo. Ci inventiamo dandoci e togliendoci dell'importanza».
Questo romanzo Come si lega ai suoi precedenti lavori?
«Da molti anni le storie che racconto sono ambientate in Europa e anche questo libro allarga intorno all'Italia e Venezia un mondo ampio e ricco di influenze. In questo, e nella centralità del dialogo tra l'uomo e la donna, c'è la continuità. Ma questo libro si stacca in modo deciso dai libri precedenti perché ho sentito la necessità di un approfondimento storico, quasi volessi mostrare su cosa poggia il mondo non solo di questa storia, ma anche dei romanzi precedenti».
Ci sono Londra, Venezia, Mestre, Marghera e la campagna.
«Le ambientazioni storiche e geografiche sono altrettanto necessarie quanto il conoscere i personaggi che vi si muovono. Non sono dei fondali, fanno parte del tessuto del racconto. Devo quindi conoscere i luoghi, studiarli anche quando non li rendo in modo descrittivo e realistico».
Quanto di autobiografico c'è?
«Il materiale con cui lavoro è sempre biografico, l'esito invece è artistico, costruito. Parto da questioni che mi stanno a cuore, dall'essere lasciato dalla ragazza in Boccalone quando avevo vent'anni nel '79 a un tentativo di affrontare la nostalgia in Le vie del ritorno del '90. Qui era la morte di mio padre e il mio tentativo di essere all'altezza del suo ottimismo e buon umore».
In quale personaggio si identifica?
«In modo diverso in tutti. Nel narratore ho costruito un personaggio piuttosto diverso da me, un giovane industriale veneto. Ma è lui che ha la mia voce. Il nonno mi assomiglia professionalmente, ma ha tratti anche di mio padre e di certi zii. Amo poi sempre il punto di vista delle donne e mi trovo a mio agio nel cercare di indovinare il modo in cui guardano il mondo».
Ci sono contrapposizioni città-campagna, presente-passato, ricchezza-cultura.
«Direi che questa è Venezia, e non da oggi. Venezia è stata a lungo lontana dal Veneto e proiettata a oriente. Questo strano conflitto geografico è ancora tangibile. L'attrito tra presente e passato rispecchia bene la differenza geografica tra città e campagna, il contrasto tra le nuove ricchezze del Veneto e l'altissima vocazione culturale che Venezia mantiene ancora oggi».
A chi ne consiglierebbe la lettura?
«Spero sia un libro per tutti. Si può entrare in questa vicenda da molte porte diverse».
Ha studiato con Umberto Eco, Gianni Celati e Giuliano Scabia.
«Ho studiato con professori straordinari. Il più illuminante, nel mio caso, è stato Gianni Celati, con cui sono rimasto in contatto. L'anno scorso ci siamo trovati diverse volte per la pubblicazione del Meridiano su di lui. Di Eco ricordo la straordinaria erudizione che a lezione portava con grande garbo ed eleganza. Di Scabia la grande apertura che come il suo teatro nasceva e tornava sempre tra gli altri, dando a ognuno un senso della propria potenzialità espressiva. Una bellissima idea del teatro che credo fosse maturata soprattutto con Basaglia».
Raffaella Ianuale
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