L'INTERVISTA
«Sono emigrato in Canada a 17 anni, non avevo niente, ma volevo

Lunedì 16 Aprile 2018
L'INTERVISTA
«Sono emigrato in Canada a 17 anni, non avevo niente, ma volevo diventare ricco e non avevo nessun dubbio che ci sarei riuscito». E indubbiamente Ermenegildo Giusti, 64 anni, nato a Volpago, oggi ricco lo è davvero. Tanto che può permettersi di comprare le trincee della Grande Guerra sul Montello perché non spariscano. E anche 250 ettari di terreno, la metà coltivati a vite, nei quali c'è l'Abbazia di Sant'Eustachio distrutta cento anni fa dalle cannonate austriache e restaurata a sue spese sotto il controllo della Soprintendenza. «Da bambino mi sembrava un castello misterioso, con le guglie. A otto anni, quando andavo nei roccoli a catturare uccelli, mi incantavo davanti all'Abbazia, mi chiedevo chi vivesse lassù. Mi è sembrato che mi avesse aspettato tanto tempo e che toccasse a me rimetterla in vita. Come se fosse stato un mio dovere farlo. C'è qualcosa di strano, però lì sono sempre in pace: è il mio posto magico».
Giusti vive in Canada, dove è a capo di sette aziende sotto l'ombrello della Giusti Group, ditta di costruzioni nata nel 1974 a Calgary, la città delle Olimpiadi di Alberto Tomba. Dalle case prefabbricate al cemento, dal petrolio a ponti e strade. Un fatturato di 250 milioni di dollari, un migliaio di dipendenti. Ogni anno importa mille container di ceramiche dall'Italia. Una laurea ad honorem in ingegneria, lo stesso giorno in cui Valentino Rossi fu proclamato dottore in comunicazione.
Come è nato l'emigrante Ermenegildo?
«Sono cresciuto in una famiglia di contadini, avevano solo un po' di terra. Fin da piccolo avevo il desiderio di andarmene dall'Italia, sentivo parlare di zio Antonio in America. Ero un bambino ribelle che aveva grandi sogni e aspettavo soltanto il momento giusto. Nel 1973 sono arrivato in Canada come saldatore e ho incominciato a lavorare subito nelle costruzioni. Devo tantissimo al professore di applicazioni tecniche delle medie, Dante Imoli; era l'unico che mi faceva sentire felice di studiare, mi ha insegnato a leggere un disegno tecnico, il disegno di una casa da costruire. È stata la cosa più importante che ho portato via dall'Italia. Ho avuto la fortuna di essere andato in un Paese dove se sei capace e onesto, anche se hai la quinta elementare puoi diventare miliardario».
Come avete costruito il vostro impero economico?
«Un anno dopo mi ha raggiunto mio fratello Fanio, siamo partiti dai telai per le case ai cinesi e siamo arrivati ai grattacieli. Volevo sempre di più, non avevo paura di sbagliare. Mi dicevo: Tanto sono venuto qui senza niente. Per quanto vada male, sto meglio qui che in Italia. Sono tornato indietro per sposare la mia fidanzata Maria Vittoria Dal Col. Abbiamo tre figli maschi, che lavorano tutti nell'azienda, e sette nipoti».
Cosa lo ha spinto a investire nel Veneto?
«All'inizio non pensavo di investire tutti questi soldi, poi Nervesa mi ha attratto e siccome il mio arrivo ha coinciso col lungo periodo della crisi internazionale, ho finito per impegnarmi sempre di più. Avevo liquidità nel momento in cui le cose in Italia non andavano bene, ho acquistato terreni, vigneti, boschi. Abbiamo investito 50 milioni di euro, soprattutto nel vino: cento ettari di vigneti. Produciamo Prosecco, Pinot Grigio, Chardonnay, nel Veronese anche Amarone, e qui il nostro top, l'Umberto I che è un incrocio tra Sauvignon, Merlot e il Petit Verdot. Non è più soltanto un gioco. Ho donato due milioni di euro per il restauro dell'Abbazia che sta per essere completato e per il centenario della Battaglia del Solstizio sarà riaperta al pubblico. Negli ultimi cento anni era stata abbandonata, abbiamo partecipato a un bando pubblico, per 80 anni è della mia famiglia, ma sono pronto a restituirla subito».
E in tutto questo cosa c'entrano le trincee?
«Sono in tanti dei nostri terreni sul Montello, le chiamavano le trincee della corda, erano la seconda linea difensiva nella battaglia decisiva. Hanno bisogno di qualcuno che le tenga in vita per ricordare cosa è stata la Grande Guerra per questo territorio e non intendo abbandonarle. Ho fatto il monumento al pilota canadese caduto qua accanto, il sottotenente Donald Gordon McLean, ho anche ricostruito l'aereo che guidava. Poi è venuto l'impegno per l'Abbazia. Però lavorare in Italia è molto difficile, da noi in Canada prevale il buon senso che qui non c'è, troppa burocrazia. Se non fosse stato per il sindaco di Nervesa Fabio Vettori che ha lottato, forse avrei mollato tutto. Fare qualcosa ti attira critiche, cattiverie, accuse ingiuste. Ti accusano di voler diventare il padrone del paese. Non conta quanto lavoro hai creato».
Come la Grande Guerra è entrata nei suoi ricordi di bambino?
«Le cose che so me le hanno raccontate i vecchi, abbiamo sempre vissuto nella nostra terra e i vecchi erano la memoria di quella terra. Ogni capofamiglia nel mio paese era mio padre, ognuno ti insegnava qualcosa: il santolo, il compare A volte mi arrabbiavo con mio padre Augusto perché col fieno ancora steso per terra prima di ammucchiare il nostro, faceva la parte per i vicini più poveri, poi per la vedova con figli E i vecchi in quelle sere ti raccontavano della guerra che avevano combattuto, della vita nelle trincee».
Lei è stato emigrante e ora rientra in una regione di molti immigrati
«Il Canada è un Paese creato dagli emigranti, multiculturale, di tutte le razze che vanno d'accordo. Se segui le leggi va tutto bene, non c'è spazio per i furbi. Anche l'Italia, e in particolare il Trevigiano, è un Paese di emigrati e non dobbiamo dimenticarlo. Non è colpa di chi viene, gente che fugge dalla miseria e dalle guerre. Il problema è che non vengono fatte rispettare le regole e aprire la porta a tutti è una politica sbagliata in tempi come questi. Chi oggi arriva è una grazia di Dio, basta vedere chi lavora nella terra o fa quei lavori che gli italiani non vogliono più fare. Non possiamo accoglierli e poi trattarli come animali o metterli in un ghetto. Se non ce la facciamo, cerchiamo di aiutarli nella loro patria. Abbiamo costruito a nostre spese due scuole in Giordania per ottocento bambini siriani e con la mia amica Sharon Stone abbiamo collaborato a un progetto per donare decine di scuole in Siria».
Tornerebbe a vivere in Italia?
«Nei primi anni forse ci ho pensato, mi mancava la famiglia. Mio padre mi aveva fatto un biglietto di andata e ritorno, l'ho gettato nel cestino: Non ritorno più. Non voglio tornare, ma sono felice di aver scoperto che l'Italia è il più bel Paese del mondo e potrebbe vivere soltanto di turismo. Ma politicamente siamo un disastro che non lascia speranza ai giovani. All'estero noi italiani siamo uniti, in Italia, anche se l'unità ha più di 150 anni, non lo siamo ancora e c'è perfino chi specula su possibili divisioni».
Il 18 maggio passerà per Nervesa una tappa del Giro d'Italia: ha mai sognato di fare il ciclista?
«Passerà anche per l'Abbazia, posso mancare? Certo mi piaceva correre, ma non ho mai avuto la possibilità di avere una bicicletta mia. Dovevo guardare le mucche, mungerle, andare a scuola e poi aiutare la mamma nei campi. Soffrivo per non avere una bicicletta, per non potermi permettere una macchina».
E adesso quante macchine ha?
«Adesso le ho tutte, anche la Ferrari, anche la Maserati. Ma vado su e giù per il Montello col mio trattore».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci