L'INTERVISTA
Prossima missione, educare alla rinuncia. Impresa ardua, ma non

Venerdì 23 Ottobre 2020
L'INTERVISTA
Prossima missione, educare alla rinuncia. Impresa ardua, ma non per Reinhold Messner, il re degli Ottomila e di ogni altra cima del pianeta, esploratore dell'impossibile, dalla Groenlandia all'Antartide, dai deserti di ghiaccio a quelli di sabbia, ma anche scrittore, regista, imprenditore, europarlamentare verde, filosofo della natura. Domani, 24 ottobre riceverà a Sant'Ambrogio di Valpolicella, durante una cerimonia in diretta streaming, il premio Masi Civiltà veneta per avere contribuito con il suo instancabile impegno alla difesa dell'ambiente sociale, culturale e paesaggistico della montagna, rifiutando ogni etnocentrismo e settarismo.
Covid permettendo, continua ad attraversare il mondo anche, e soprattutto, per raccontare l'Everest, conquistato senza bombole di ossigeno, insieme alle altre mille sfide in regioni estreme della terra, dove ha toccato cielo e abissi, vita e morte, e l'euforia del ritorno. «È importante - afferma Messner che a settembre ha compiuto 76 anni - consegnare la mia eredità alle nuove generazioni. Trasmettere le esperienze che ho vissuto. Io mi sono battuto per un alpinismo di rinuncia».
Cosa ha significato nella sua lunga ed eccezionale attività di scalatore un rapporto spartano con la natura, per il quale l'equipaggiamento era notevolmente ridotto?
«Non ho voluto con me mezzi tecnici. Non ho lasciato tracce. Non ho usato quasi niente nelle ascensioni. Né ho mai utilizzato un telefono. Nessuno mi poteva dire cosa fare. Nella spedizione del 1970 in Himalaya, sul Nanga Parbat, eravamo in diciotto e avevamo con noi otto tonnellate di materiali. Nella salita di cinque anni più tardi, in due, il carico era di duecento chili (sul Gasherbrum, ndr). È un alpinismo che ci pone in condizioni di massima esposizione, limitando al minimo l'uso di strumenti artificiali, in un ambiente che resta incontaminato. Ma ritengo che anche al centro della nostra vita, oggi, occorra porre la rinuncia. Consumiamo troppo. Bisogna salvare il mondo. E salvaguardarlo dai cambiamenti climatici».
Contare solo sulle proprie forze nelle imprese in solitaria, eliminare tutto, alleggerire ogni zaino: può diventare un ideale di vita anche per chi non è un alpinista?
«Certo. Abbiamo esagerato in molte cose. Lo abbiamo capito con l'arrivo di questa pandemia. Abbiamo consumato le nostri fonti energetiche. Come possiamo andare avanti con una popolazione mondiale di quasi otto miliardi? Come, con gli attuali flussi migratori? In Africa pensano che da noi sia il paradiso. Però noi dobbiamo fare il possibile per accettare i migranti. Comunque, avevo già in programma l'Australia e la nuova Zelanda per parlare dell'alpinismo di rinuncia. Ma a causa del Coronavirus gli appuntamenti sono stati rinviati. Ho nuove richieste da Mosca e dagli Stati Uniti. Propongo meno consumo, meno velocità, più empatia con il prossimo. I giovani, con il tempo, potranno capire».
Anche la lentezza rappresenta un valore da indicare alle nuove generazioni?
«Ciascuno di noi ne ha bisogno. Il mondo è cambiato totalmente. Siamo tutti troppo veloci e i bambini non sfuggono a questo ritmo».
L'emergenza sanitaria con il lockdown ha frenato la nostra corsa, modificato le abitudini. Come ha vissuto l'alpinista Messner?
«Nel marzo scorso, sono stato in quarantena, a Monaco di Baviera, di ritorno dall'Africa. La politica però ha fatto bene: dobbiamo seguire delle regole alle quali mi sono sottomesso. Durante questo lungo periodo ho continuato ad effettuare le mie salite. Ho scritto inoltre un libro che riguarda la storia dell'alpinismo, e sempre dal punto di vista della rinuncia».
Potremo superare la crisi provocata dal Covid-19?
«Penso che l'Italia possa uscirne, ha tutto quello che serve ad avere successo. Certo, ha contratto dei debiti».
La sua eredità è anche nel circuito di sei musei della montagna in altrettante località dell'arco alpino, dal Bellunese al Sud Tirolo, luoghi di incontro con la natura per quanti considerano le alte quote molto più di una palestra di roccia. Ogni visita è come un'escursione e un viaggio dello spirito.
«È un museo autosufficiente, non abbiamo finanziamenti statali. Se il prossimo inverno il numero dei turisti sarà ridotto della metà, saremo costretti a chiudere le nostre sedi. Non siamo gli Uffizi di Firenze che ricevono aiuti pubblici. Ma ancora non sappiamo che cosa accadrà e quali soluzioni adottare».
Autosufficienza anche nella sua azienda agricola in val Venosta, nel medievale Castel Juval, sua residenza estiva, che ha definito arroccato come un nido d'aquila su uno spuntone di roccia.
«Sì, siamo autosufficienti. Lo siamo stati anche durante il lockdown. Le nostre coltivazioni possono garantire la sopravvivenza alla mia famiglia, che conta complessivamente una ventina di persone, tra fratelli, relativi mogli e figli. Abbiamo scelto un'agricoltura biologica, produciamo vino nella nostra piccola azienda. E io provo grande rispetto per chi riesce a fare un vino pulito, buono e di qualità».
Donatella Vetuli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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