L'INTERVISTA
«Porteremo in tutte le case le uova di cioccolato dell'Associazione

Lunedì 6 Aprile 2020
L'INTERVISTA
«Porteremo in tutte le case le uova di cioccolato dell'Associazione Italiana Leucemie. Non possiamo venderle nelle piazze e allora le consegneremo a domicilio per mare e per terra. Basta telefonare al numero 3486600986, rispondo personalmente. Abbiamo già centinaia di ordinazioni, questa è una terra generosa anche nei momenti drammatici. Regaleremo centinaia di uova negli ospedali di tutta la provincia tra medici e paramedici in segno di riconoscenza per quello che stanno facendo».
Giovanni Alliata di Montereale, 66 anni, romano di padre siciliano e madre veneziana, è presidente provinciale dell'AIL e non vuole arrendersi: «Perché la solidarietà è più forte di ogni virus». Trapiantato a Venezia negli Anni 80, è diventato un protagonista della vita culturale della città; come nipote del conte Vittorio ha un posto ai vertici della Fondazione Cini.
Cosa ci fa un siciliano a Venezia?
«Gli Alliata sono un'antica famiglia pisana esule in Sicilia nel Trecento. Fecero fortuna diventando i gabellieri per 5 secoli, dagli Aragonesi al Regno delle Due Sicilie. Nell'isola i rami si sono moltiplicati, portano i nomi delle località dove c'erano i feudi: Montereale, Villafranca, Salaparuta Nel Novecento per lavorare molti si sono spostati, mio padre Fabrizio a Roma dove io sono cresciuto. Ha sposato Yana Cini, figlia di Vittorio e di Lyda Borelli. Lei era veneziana di Dorsoduro, cresciuta nel palazzo della famiglia con due sorelle e il fratello Giorgio. Il matrimonio dei miei nel 1953, nella chiesa della Salute, fu raccontato come una cerimonia memorabile: il corteo di gondole, invitati da ogni parte d'Italia».
E' stata un'infanzia impegnativa con quei cognomi?
«Venivo a Venezia in vacanza, a settembre, un mese nel palazzo di San Vio e in spiaggia al Lido. Da ragazzino partecipavo ai mitici pranzi del nonno che invitava politici, economisti, artisti, scrittori. Tra i politici ricordo Amintore Fanfani che in seconde nozze aveva sposato Maria Pia Tavazzani, amica di mia madre. C'era un divano sul quale gli ospiti prendevano in caffè e Fanfani, che era piccoletto, ci affondava e doveva sollevare le gambe. Una sera mi colpirono le sue scarpe con suole non proprio nuovissime e mi venne da ridere! Rubinstein, il grande pianista, disegnò con una penna il profilo della sua mano sul cartoncino del menu, mio fratello Vittorio lo conserva ancora».
Che tipo era nonno Vittorio?
«Era sempre in movimento, le sue aziende erano tante, dalla telefonia all'elettricità, dagli alberghi ai trasporti. In quel periodo molte sue società furono nazionalizzate e questo gli diede grosse risorse finanziarie che investì in larga misura nell'isola di San Giorgio, nella creazione della Fondazione in memoria del figlio Giorgio che era morto nell'agosto del 1949 in un incidente aereo a Cannes: dopo il decollo aveva fatto manovra per salutare l'attrice Merle Oberon. Il nonno elaborò quel lutto rivitalizzando l'isola di San Giorgio che era piuttosto malridotta: da De Gasperi a Fanfani in molti si diedero da fare perché l'isola da demanio militare potesse essere utilizzata diversamente. Ha investito moltissimo anche nell'acquisto di collezioni d'arte, di libretti d'opera, miniature, libri d'epoca, la grande fototeca».
Aveva attraversato, nel bene e nel male, da protagonista la prima metà del Novecento e il fascismo.
«Si respirava la storia tra quelle mura, c'era stata Lyda Borelli la grande attrice, una delle prime divine dello schermo. Il nonno non ha mai amato essere celebrato, non voleva rilasciare interviste, non autorizzava biografie. Ricordo il giornalista veneziano Sandro Meccoli che voleva scrivere un libro. Non ci riuscì nemmeno Indro Montanelli che veniva spesso con la moglie Colette Rosselli che era grande amica della seconda moglie del nonno, Maria Cristina Dal Pozzo per noi nonna Kiki. Prima di morire, nel 1977 a 92 anni, il nonno aveva dato ordine che i suoi Diari venissero bruciati, senza che nessuno li leggesse. E così fu fatto. Certo fu coinvolto nel regime fascista, ma ebbe l'accortezza di restare sempre dietro le righe. Anche prima della fine del fascismo. E' stato commissario dell'EUR, l'esposizione universale che si doveva fare nel 1942: era stato negli Usa, fece un report a Mussolini mettendo in guardia dalla forza americana. Quando, nella primavera del '43, si ritrovò ministro delle Comunicazioni segnalò che l'Italia era allo sfascio totale, suggerì una pace separata. Si dimise prima del 25 luglio e dopo l'8 settembre a Roma fu catturato con Giuseppe Volpi dai nazifascisti. Volpi finì in via Tasso, nonno a Dachau, in un campo di concentramento. E' stato il figlio Giorgio, impegnando anche i gioielli della madre, a corrompere chi poteva far uscire il padre dal lager. Una volta rientrato, Cini si rifugiò in Svizzera e finanziò la Resistenza. Era il Conte di Monselice, ma teneva soltanto al titolo di senatore che gli era stato dato nel 1934 per meriti imprenditoriali. Dopo la guerra fu processato e assolto, il titolo di senatore del Regno gli fu restituito fino alla proclamazione della Repubblica. Il suo posto a tavola rimase quello del senatore, sempre».
E la famiglia Alliata-Cini?
«Mio nonno paterno Giovanni Francesco Alliata era molto legato a una sua visione siciliana di nobiltà ereditaria; uno zio, Gianfranco, è stato deputato monarchico per quindici anni. Mio padre lavorava e aveva lasciato la Sicilia. Mamma parlava quattro lingue e amava la lettura. Aveva avuto una forma di poliomielite che, da bambina, l'aveva costretta a un lungo periodo di immobilità e in questa casa piena di libri collezionati dal nonno aveva maturato una curiosità eccezionale. Si è dedicata alla cura della polio che prima del vaccino era devastante, ha messo in piedi un centro per la riabilitazione e la cura e l'istruzione dei bambini. Il suo Nido Verde Lyda Cini, intitolato alla nonna, era in cima alla collina di Monte Mario. Poi ho saputo che anche il nonno aveva finanziato centri per la cura. Molte cose le ho scoperte nel grande archivio al piano terra del palazzo, sono riuscito a salvare i documenti e trasferirli in un ufficio alle Zattere. Mamma, che è morta nel 1989, ha donato la sua parte di collezione alla Fondazione: opere di Botticelli, di Piero della Francesca, del Pontormo. Ora il coronavirus ha bloccato le attività e anche il museo che speravamo di aprire il 25 Aprile. Stiamo provando a resistere».
Ora cosa fa Giovanni Alliata?
«Rientrando nell'89 a Venezia mi sono imbarcato in una vita stabile. Mia moglie Michela insegna letteratura inglese a Ca' Foscari, ho due figli: Manfredi che lavora a Houston e Ottavia che studia a Milano. Sono entrambi lontani, stiamo vivendo momenti incredibili. Oltre a dedicarmi alla Fondazione, organizzo rassegne: ne dovevamo fare una alla Bevilacqua sui pittori di Burano, chissà quando sarà possibile? Penso a una grande galleria multimediale per recuperare la venezianità dell'artigianato: nei profumi, negli abiti, nei vetri, nei libri».
Cosa succederà a Venezia dopo il coronavirus?
«E' evidente che la città adesso è soffocata dal vuoto e che una serie di realtà veneziane sono alle corde, anche la Biennale, la Fenice, la Fondazione, la Guggenheim. Ci auguriamo che ritornino i flussi turistici, senza Venezia muore. E allora? Favoriamo la residenza, oltre all'università e alle istituzioni, possono trovare spazio attività produttive. Occorrono anche attività culturali all'altezza. La gestione della città è complessa, esige realismo per il dopo crisi. Non ci si può continuare a lamentarsi, c'è stata una rendita di posizione molto forte. L'erba c'è e fa mangiare un sacco di gente».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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