L'INTERVISTA
La ruota dei Cosma gira dalla fine dell'Ottocento, quando il bisnonno

Lunedì 18 Novembre 2019
L'INTERVISTA
La ruota dei Cosma gira dalla fine dell'Ottocento, quando il bisnonno sposò la figlia del mugnaio della Villa Wollemborg a Loreggia. Era il mulino della residenza del senatore Leone, l'uomo che ha fondato le Casse Rurali.
Più di cent'anni dopo i Cosma macinano ancora farina, lo fanno a San Martino di Lupari. La ruota non gira più per la forza dell'acqua, ma è mossa dall'elettricità. È conservato un vecchio contratto con la Società Anonima Trevigiana: Non prelevare in alcun caso più di 25 Kw. Oggi se ne consumano 650!
Il Molino Cosma è un'azienda che fattura 15 milioni di euro l'anno e si espande su 35 mila metri quadrati. Si macinano 200 tonnellate di grano tenero al giorno. Al timone quattro fratelli: Piero 51 anni, in collaborazione con Marta 58, Rosanna 57, Paola 55.
Dal vecchio mulino ad acqua al mulino elettrico?
«A far crescere la fabbrica è stato nonno Giovanni che si era spostato a San Martino di Lupari dove non ci sono corsi d'acqua e aveva acquistato uno dei primissimi mulini elettrici nel Veneto. Il nonno andava a cavallo al mercato di Castelfranco Veneto dove si gestivano tutti gli affari. C'era molta povertà e tante famiglie erano collegate al mulino per sopravvivere. Si macinavano il grano tenero e il mais. Le cose si sono messe male con la seconda guerra e la famiglia si è trovata coinvolta soprattutto dopo l'Armistizio e l'occupazione del Veneto da parte dei nazifascisti. La zia più anziana, Bruna, si è sposata dentro il mulino, nel reparto macinazione; il giorno delle nozze sono arrivati i tedeschi che hanno portato via la farina».
Avete avuto anche morti in quella guerra?
«La famiglia della mamma, Eurilla Antonello, che adesso ha 85 anni, è stata gravemente colpita. La guerra stava quasi per finire, quando il nonno materno, Giusto, è stato preso in un rastrellamento dai tedeschi che volevano coprirsi la fuga con gli ostaggi. Era un uomo corpulento, grosso com'era faceva fatica a camminare al passo di marcia, gli avevano tolto anche le scarpe, è stato ucciso lungo la strada e il corpo massacrato».
Quella di Castello di Godego è stata l'ultima strage dei tedeschi in Italia, il 29 aprile 1945. Presero 76 ostaggi di San Martino di Lupari e delle frazioni vicine, li fucilarono a gruppi senza che ci fosse un motivo, ruppero a tutti la testa col calcio del fucile. Dopo aver abbandonato i corpi, la colonna si allontanò.
Il mulino sopravvisse alla guerra
«Nonno Giovanni che aveva avuto otto figli passò la mano a nostro padre che era nato nel 1921 e faceva il ferroviere, negli anni della guerra era capostazione a Castelfranco. Prese in mano la gestione, doveva farlo perché il fratello che avrebbe dovuto occuparsi del mulino era morto giovane. Divideva il lavoro col fratello Giuseppe che si occupava della produzione: Giuseppe da bambino era finito sotto la ruota del mulino perdendo un orecchio e riportando conseguenze che da adulto lo avrebbero portato alla paralisi. Un altro fratello, Remo, aveva un mulino a Castelfranco, ma lui aveva anche una vena poetica, ha lasciato raccolte di versi. È stato papà Umberto a far fare il salto industriale all'impresa creando nel 1961 il primo silos in cemento per il grano: era tale la novità che in quegli anni sulla cartolina dei saluti da San Martino di Lupari c'era il nostro mulino. Nel 1981 ha fatto costruire un mulino completamente nuovo: aveva capito che la panificazione artigianale era già in declino e si è dedicato al prodotto per l'industria. Fino agli anni '70 il consumo di farina era destinato al panettiere che produceva pane e dolci, ma alla grande distribuzione organizzata occorreva rispondere con un'organizzazione industriale. È stato allora che sono nate in Veneto le prime Biscotterie, come la Lago di Galliera Veneta e la Piovesan di Conegliano. In breve tempo siamo diventati anche fornitori della Motta che aveva impianti a San Martino Bonalbergo e abbiamo collaborato con la Barilla».
Come è stata l'infanzia con un padre come Umberto?
«Aveva un carattere forte, è stato un padre severo, l'impostazione della famiglia era patriarcale, veniva da una cultura contadina, si mangiava quello che c'era e dovevamo pranzare tutti assieme, spesso anche i dipendenti sedevano a tavola. Il mulino aveva sempre un cortile pieno di persone che aspettavano la macinazione. Per noi fine giugno era un evento, la fila dei cavalli e degli asini, poi tanti trattori. Qui c'erano i ferri per legare gli animali, c'era la rotonda che faceva da spartitraffico. A Umberto piaceva il cibo e anche la qualità del vino, curava la sua cantina. Era un uomo di compagnia, con tanti amici, bastavano pane, soppressa e vino. La domenica andava al bar e guardava gli altri che giocavano a carte, a lui non piaceva giocare. Ci ha fatto diplomare tutti da ragioniere, venivamo assunti appena diplomati. Nel 1980 ha avuto un infarto, lo ha affiancato Marta nel lavoro, lo accompagnava in auto alla Borsa Merci di Treviso e dai clienti. È morto nel 1990, noi figli ancora molto giovani abbiamo deciso di continuare l'attività: una scelta irreversibile, non ci siamo più potuti tirare indietro».
Come è stato l'ingresso nell'azienda?
«È stata l'esperienza più forte: mentre era in atto il cambio dei laboratori e il mulino era fermo, papà era in ospedale. Cresci per forza Io dopo il diploma ho frequentato la Scuola di Arte Bianca a Torino, l'ultima scuola regia rimasta in Italia. Papà è morto alla vigilia degli esami, sono tornato di corsa, Marta aspettava il primo figlio e io senza esperienza mi sono tuffato nell'attività, c'era bisogno di tutti, un mese dopo il parto Marta era in Borsa Merci. Da allora siamo tutti qui. Il settore molitorio richiede lavoro costante, è cresciuta la concorrenza e bisogna adeguarsi, solo continui investimenti ci consentono di reggere. Nel 1998 abbiamo costruito il silos e cominciato a produrre un numero maggiore di farine e avere nuovi clienti».
Il lavoro del mugnaio oggi?
«Richiede capacità di selezionare grani provenienti sia dalla Pianura Padana sia da numerosi paesi europei: Germania, Francia, Austria, Ungheria. E creare miscele di grano adeguate e opportunamente lavorate in modo da poter rispondere al mercato. La clientela è molto varia, lavoriamo col piccolo artigiano e col grande industriale, con la grande distribuzione organizzata che rappresenta il 20% del nostro fatturato. Maciniamo soltanto grano tenero, 12 varietà di grano; il mulino è una sequenza di passaggi di macinazione e setacciatura. Del mulino vecchio non è rimasto niente. Prima c'erano molti mulini, ogni paese ne aveva anche più di uno, tutti i contadini portavano il grano a macinare: nel 1990 c'erano 800 impianti di grano tenero, siamo arrivati a 220, anche se la capacità produttiva è rimasta la stessa. La produzione è cambiata molto e sono cambiate le leggi. Maciniamo grani biologici italiani da 15 anni, il farro che va bene perché ha quantità di glutine basso e elastico e questo ha portato un po' al declino del kamut. Una volta la farina 00 era ritenuta la migliore perché la più bianca, oggi si usano le farine più scure e quelle integrali. Abbiamo a che fare con un prodotto vivo che è un prodotto della natura e non tutti gli anni è uguale, la maturazione del grano dipende dalla meteorologia».
Ma il pane quotidiano è buono?
«Il pane in tavola è molto sicuro, il processo di controllo sotto il profilo sanitario e proteico è molto severo e in Italia c'è la legislazione più severa in Europa. Siamo fortunati come italiani, nessun paese è così ricco di tradizione di panificazione come il nostro».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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