L'INTERVISTA
La guerra delle banane il padovano Armando Dal Bello l'ha vinta

Lunedì 18 Gennaio 2021
L'INTERVISTA
La guerra delle banane il padovano Armando Dal Bello l'ha vinta da solo quarant'anni fa, infrangendo il monopolio delle multinazionali americane. È andato il Colombia, nel cuore della zona pericolosa di Medellin, e ha organizzato il primo carico di banane in grado di sfuggire ai colossi Usa. Ha comprato una nave, ha giocato d'astuzia prima dello Stretto di Gibilterra ed è filato dritto al porto di Vasto, anziché dirigersi a nord per Rotterdam. Chi arriva prima, prima viene sdoganato. Oggi in tanti importano banane senza dipendere dalle multinazionali.
Per capire quanto quel gesto sia stato di rottura basta pensare al peso che i grandi produttori hanno avuto per un secolo sull'economia e sulla politica dell'America Centrale; appena dieci anni fa dietro il colpo di stato in Honduras c'era la guerra delle banane. In Cent'anni di solitudine Gabriel Marquez racconta anche il grande sciopero dei raccoglitori in Colombia nel 1929, concluso con una strage. Repubblica delle banane non era soltanto un modo di dire.
In Italia, quando c'erano le colonie, dettava legge la Regia azienda delle banane. Con la Repubblica c'è stato il Monopolio saltato in aria nel 1963 con lo scandalo delle banane, una storia di aste truccate che ha coinvolto un ministro.
Armando Dal Bello ha 82 anni, ogni mattina partecipa con i figli alla videoconferenza aziendale. La Dal Bello Sife, in Corso Stati Uniti a Padova, è oggi gestita da Alessandro e Paolo Dal Bello, 55 e 50 anni. Importano tutta la frutta fresca dell'emisfero Sud: 28.500 tonnellate di banane, 7200 tonnellate di ananas, 15 mila tra pere, uva, kiwi, arance. Il fatturato tocca i 40 milioni di euro. Nella primavera scorsa hanno riempito di arance i mercati italiani: «Abbiamo salvato con la vitamina C l'Italia al tempo del primo lockdown, importando 250 container di arance, 5mila tonnellate. C'era grande richiesta col Covid, la Spagna si è tenuta le sue, in Italia non andavano nemmeno a raccoglierle perché mancava chi potesse farlo. C'è stata anche qualche polemica, un deputato leghista ha mostrato le nostre arance d'importazione, senza sapere che quelle italiane erano da tempo esaurite».
I Dal Bello sono alla quarta generazione: «Nel 1922 festeggeremo alla grande: i 100 anni dell'azienda, i 50 della nuova società, i 40 di importatori». Alessandro è sposato con Marta, hanno due figli: Alvise che frequenta il Politecnico a Milano e Alex, 10 anni. Paolo è sposato con Micol e ha un figlio, Nicolò di 11 anni.
Quando è incominciata la storia dei Dal Bello?
«L'azienda è stata fondata nel 1922 dal bisnonno che andava a vendere i suoi prodotti al mercato. Aveva 12 figli, sei maschi, con nomi particolari, il fratello di nonno Armando si chiamava Ardiccio. Durante la Grande Guerra coltivare campi evitava di morire di fame. Il bisnonno ha sposato una trevigiana e si è trasferito, nostro padre è nato poco prima della Seconda guerra, aveva 18 anni quando è venuto a Padova e ha aperto il suo stand proprio in centro città, si chiamava Cavalier Armando Dal Bello srl. Nel 1972 lo ha trasformato in società importatrice di frutta esotica».
Che tipo è vostro padre?
«È un imprenditore veneto un po' diverso da quello classico, con un respiro internazionale. Non è solo quello che ha avuto il coraggio di andare a Medellin e di rompere l'embargo con quella nave, la nostra azienda moderna l'ha proprio fatta lui. E ci ha insegnato a non essere soltanto imprenditori, ma a guardare lontano: diamo la frutta alle cucine popolari nella chiesa di suor Federica, ci mettiamo a disposizione, se ha bisogno chiama. Sono gli ultimi, 270 persone che ricorrono alle cucine popolari. Come presidente Lions papà ha organizzato concerti per raccogliere di fondi per orfani e vedove di Carabinieri, siamo legati all'Arma e alle istituzioni dello Stato».
Come avete attraversato l'anno del Covid?
«Quando è scattato l'allarme abbiamo in qualche modo isolato l'azienda: bloccati gli ingressi, fin dal primo giorno misurazione della temperatura a chiunque entrasse, mascherine. Abbiamo sempre lavorato, qualcuno dei nostri prodotti è calato, l'ananas per esempio, che è molto legato alla ristorazione e alle crociere. Ma è salito il consumo delle banane ed è aumentato del 200% quello delle arance».
Quando Alessandro è entrato in azienda?
«A 22 anni mio padre mi ha detto che c'era la possibilità di andare un anno nelle piantagioni di banane in Costa Rica. Era il 1990, sono partito dopo i Mondiali di calcio, e nelle piantagioni ho imparato le basi del mestiere. Quell'anno si è trasformato in 20 anni di Costa Rica, a seguire 500 persone e 800 ettari di piantagioni. Erano banane destinate a una multinazionale americana. Ho passato anni bellissimi, allora era un paese in via di sviluppo, adesso è lo stato più stabile di quell'area. Il momento più difficile è stato nel 2001 quando la terza inondazione consecutiva ci ha messo in ginocchio. Non avevo cassa, non avevo prodotto, però sono riuscito a non licenziare nessuno e, quando l'acqua ha incominciato a ritirarsi, tutti insieme abbiamo tolto il fango e siamo riusciti a fare un container di banane in mezza giornata e con quello sono riuscito a pagarli. Sono rientrato definitivamente in Italia nel 2014, ora seguo la parte dell'importazione. Con Paolo lavoriamo insieme e prendiamo le decisioni insieme»
Paolo ha anche una storia drammatica da raccontare
«La mia infanzia è stata iperattiva, un carattere ereditato da mio padre e a scuola la ribellione si paga. Sono stato quattro anni in collegio dai Filippini che mi hanno formato con una disciplina quasi militare che mi è servita moltissimo all'università. Mi svegliavo alle tre del mattino e andavo al mercato per imparare il mestiere, lavoravo e studiavo. Il momento drammatico l'ho vissuto quando aveva 16 anni, ero in vacanza ad Asiago e sono stato investito l'ultimo giorno dell'anno sul marciapiede da un automobilista ubriaco che è scappato. Sono andato nell'aldilà e poi sono tornato! Vedevo i medici sopra di me, operavano, io mi guardavo dall'alto e a un tratto mi sono svegliato con un dottore che mi stava impiantando un chiodo nella gamba. Sono tornato dall'aldilà, ci credo davvero. Papà aveva fatto affiggere per tutto l'Altopiano cartelli che offrivano 5 milioni a chi avesse fornito notizie sull'investitore, l'uomo è stato identificato e condannato. Chi doveva ritirare la taglia ha devoluto la cifra in beneficenza».
Come vi muovete oggi sul mercato?
«Abbiamo creato un marchio nuovo, color fucsia, Lola, dovevamo lanciarlo alla fiera di Berlino Schiacciati dalle multinazionali molti nostri concorrenti sono falliti. In Italia siamo rimasti in sette, due soli indipendenti; tanti supermercati italiani cedono alle multinazionali che impongono i prezzi. Non ci lamentiamo, siamo in crescita, siamo i grandi fornitori dei centri tedeschi. Siamo una delle prime aziende plastic-free, siamo attenti alla ecosostenibilità. Il mercato vuole qualità, servizio e anche prezzo. Le banane rappresentano il 10% del fatturato dell'ortofrutta nella grande distribuzione. Il prodotto italiano migliore mele e pere non va in Italia, ma in Germania e Austria che lo pagano meglio. C'è chi, appena colte dall'albero, mette pere e mele in cella frigorifera e qui iniettano una goccia di smart fresh che è una molecola che si attacca al ricettore dell'etilene e lo blocca, non lo fa invecchiare. Riescono a conservarle per tanti mesi, però perdono la caratteristica principale; il profumo e il sapore».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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