L'INTERVISTA
La definizione più efficace l'ha data lui stesso: «Il

Giovedì 15 Agosto 2019
L'INTERVISTA
La definizione più efficace l'ha data lui stesso: «Il mio è un libro feroce». Giulio Cavalli, nato a Milano, 42 anni, finalista al Campiello con Carnaio, Fandango editore, è un personaggio poliedrico: attore, autore teatrale, giornalista, politico e ovviamente scrittore. Da anni vive sotto scorta per le sue prese di posizione contro la mafia.
Il libro è un pugno nello stomaco del lettore. Un'iperbole macabra di grande attualità: l'invasione dei migranti. Con la variante, non trascurabile, che arrivano già morti, cadaveri portati dal mare. Centinaia, migliaia, decine, centinaia di migliaia, che sommergono DF, cittadina, come spiega Cavalli, «intrisa del perbenismo padano», che potrebbe essere ovunque in Italia. Un'emergenza che trasforma le persone, che in breve tempo passano dal pietismo per i primi corpi ritrovati al fastidio, all'orrore, fino all'opportunismo sfrenato. Anche i cadaveri possono diventare un business. Come l'immigrazione.
Cavalli, quanta Italia c'è in Carnaio. Siamo tutti destinati a diventare cittadini di DF?
«Questo lo lascio decidere al lettore. Io ho sempre avuto il terrore che Carnaio venisse scambiato per un editoriale. Non mi sarei mai permesso di scrivere un libro per fare un editoriale politico. Questa è letteratura. Un'iperbole della realtà. Volevo dimostrare che quando si abbattono certi muri etici si precipita verso l'abisso».
Però chi legge il suo romanzo, in questo contesto storico, non può non pensare all'Italia e alla questione immigrazione.
«Questo l'ho percepito anche durante gli incontri di presentazione dei finalisti del Campiello. Molti lettori, anche politicamente lontani da me, hanno condiviso la caduta dell'etica che stiamo vivendo. Il libro denuncia l'imbruttimento dell'umanità. È un'umanità che deperisce».
Nessun riferimento alla linea dura di Salvini?
«Io ho scritto Carnaio prima che si formasse il governo Salvini-Di Maio. Il ministro dell'interno era Minniti, e già mi sembrava tanto».
I corpi che il mare porta a DF sono tutti uguali, scuri, stessi lineamenti, senza identità. Come i migranti che arrivano da noi, numeri di cui non sappiamo nulla?
«Se vogliano restare al paragone con la situazione italiana, la risposta è sì. Noi non sappiamo nulla dei poveracci che arrivano e nemmeno ci interessa saperne. L'anonimato aiuta a non farci coinvolgere nelle storie. Meno sappiamo e meno ci preoccupiamo. Noi trattiamo i migranti come fossero cose. Il miglior modo per non far riconoscere l'altro uguale a se stessi, è quello di non raccontarlo. E questa è la strategia in atto in questo momento. Il silenzio sul prima di queste persone. Stiamo spostando i confini etici sempre più indietro, fatichiamo a restare umani».
Non è che l'Italia stia barattando l'umanità con la voglia di sicurezza?
«È un giochino vecchio come il mondo. Chi ha il potere cerca di autopreservarsi, alimenta la paura del terrorismo e di conseguenza la voglia di sicurezza. Lo facevano i nazisti e i fascisti, ma anche Churchill. Gli abitanti di DF accettano la discesa nel baratro senza ribellarsi. Possibile che non ci sia almeno una comandante».
Carola?
«Non tutti hanno gli strumenti culturali per ribellarsi. I buoni sono maggioranza, però mancano i leader. In Italia c'è carenza di intellettuali, persone in grado di fare da raccordo tra la classe dirigente e quello che chiamiamo il popolo. E i risultati si vedono. I magistrati fanno gli intellettuali, i politici per acquisire popolarità diventano populisti. Mancano punti di riferimento. Non può essere il pescatore di Ventimiglia (il primo a ripescare un cadavere, ndr) a ribellarsi. Lui è una vittima. Io nei miei lavori cerco di dare un contributo al dibattito, ma non voglio imporre una mia visione».
Denunciare i problemi è facile, proporre soluzioni molto più complesso. L'immigrazione, anche guardandola con l'occhio più buonista possibile, è un problema. Cosa si può fare per non diventare DF?
«Innanzitutto bisogna prendere coscienza che la gente che scappa dalla fame e dal piombo non si ferma. Come primo atto concreto servirebbero canali umanitari gestiti dall'Europa e non dalle Ong. E poi bisogna smettere con la retorica dell'emergenza: l'Europa deve dimostrare di non essere solo un'unione finanziaria. Il trattato di Dublino deve essere rivisto».
Cosa significa per lei portare questo libro in finale al Premio Campiello?
«È un grande riconoscimento. La certificazione che sono uno scrittore. Se nel teatro mi sono sentito davvero un attore quando sono stato scelto da Dario Fo per un lavoro, oggi questa attestazione la sento nella letteratura. Oltretutto il riconoscimento arriva da un mondo lontano da me. Non sono certo il prototipo dello scrittore confindustriale. Essere stato scelto è anche una conferma della serietà del Campiello, un Premio non condizionato».
Che idea si è fatto dei suoi colleghi-avversari?
«In questo periodo ci siamo molto frequentati nelle pubbliche presentazioni dei nostri cinque libri. Ho conosciuto persone diverse da me, ma accomunate dalla ricerca della verità attraverso la scrittura. Un'esperienza umanamente importante e credo che le relazioni continueranno anche dopo il Premio».
Essere in finale è già una vittoria?
«Certo, io ho già fondato il sindacato della cinquina. Però quando si arriva in finale si gioca per vincere».
Vittorio Pierobon
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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