L'INTERVISTA
L'appuntamento è in un luogo-simbolo, davanti al teatro La

Martedì 22 Settembre 2020
L'INTERVISTA L'appuntamento è in un luogo-simbolo, davanti al teatro La
L'INTERVISTA
L'appuntamento è in un luogo-simbolo, davanti al teatro La Fenice, dove stava provando uno spettacolo. Al mattino invece aveva girato a San Marco alcune scene del documentario Lo sguardo su Venezia del regista Simone Marcelli. Pausa pranzo, chiacchierata informale. Ottavia Piccolo, veneziana per scelta, come ama definirsi, in questi giorni festeggia i 60 anni di carriera, cominciata nel 1960, quando aveva 11 anni. A vent'anni aveva già alle spalle una carriera da grande attrice. Aveva lavorato con registi del calibro di Luigi Squarzina, Luchino Visconti, Giorgio Strehler e vinto nel 1970 la Palma d'oro come migliore attrice al Festival di Cannes con Metello di Mauro Bolognini. Da allora non si è più fermata.
Ottavia, non si stanca mai di lavorare?
«Il lavoro è il mio hobby. È il mio passatempo. Per me è un divertimento, anche se, intendiamoci, richiede impegno, concentrazione, sacrificio. Non saprei cos'altro fare. Io nella vita ho sempre calcato le scene».
L'esordio a 11 anni a teatro in Anna dei miracoli, come ha fatto una bambina a finire a recitare accanto ad Anna Proclemer?
«Mia mamma ha letto su un giornale che cercavano una bambina per il ruolo di Helen, la piccola sorda, cieca e muta. Nè io e nemmeno mia madre avevamo mai visto un teatro. Ho fatto un provino e mi hanno preso. Dovevo muovermi in maniera incerta, come richiedeva il personaggio, e forse l'emozione mi ha aiutata a recitare bene. Diciamo che sono stata fortunata».
Da quel momento la sua vita è cambiata?
«Per la nostra famiglia è stata una rivoluzione. Papà era un istruttore di cavalleria dei carabinieri, la sua paga era di 35 mila lire al mese. Io sono partita subito in tournée, ovviamente accompagnata da mamma, e sono stata in giro per l'Italia per sette mesi. La prima paga era di 6.500 lire al giorno».
Molto più di suo padre
«Però non avevamo messo in conto che erano a carico nostro pranzi e alberghi. Alla fine mamma ha dovuto chiedere a papà di mandarci dei soldi».
La sua famiglia è stata importante?
«Moltissimo. Erano orgogliosi dei miei successi. Mio papà purtroppo è mancato presto. Credo che quando veniva a teatro vedesse poco dello spettacolo, perché ogni volta che lo guardavo lo vedevo piangere per la gioia. Mamma invece all'inizio è stata una presenza costante, mi accompagnava sempre sul set e a teatro. Quando avevo 19 anni le ho detto che forse era giunto il momento che mi lasciasse andare da sola».
La Palma d'oro a vent'anni poteva spianare una carriera nel cinema. Invece lei ha fatto più teatro.
«È vero, ma forse quando ho vinto a Cannes era troppo presto. Io ero diventata un'attrice per caso. Diciamo che dopo Metello non ho trovato il film della consacrazione. Ho girato Bubù ancora con Bolognini e «Un'anguilla da 300 milioni di Salvatore Samperi con Lino Toffolo. Due film che non sono passati alla storia».
E in mezzo la love story con Massino Ranieri?
«Ma quale storia d'amore. Con Massimo non c'è stato nulla, solo una montatura promozionale. Allora c'era il modello Albano e Romina e bisognava che scoppiasse qualcosa tra gli attori».
Sembra che il teatro le abbia dato più soddisfazioni del cinema.
«Da quando avevo 11 anni non ho più smesso di fare tournée teatrali. Solo l'anno che ero incinta ho dovuto rallentare. Adesso sto per ripartire con un lavoro di Stefano Massini Eichmann. Dove inizia la notte, un dialogo, in realtà mai avvenuto, tra il criminale nazista e la scrittrice Hannah Arendt. Un testo molto forte, impegnato, come piace a me».
Lei è una donna impegnata.
«Cerco di scegliere testi che sento vicini alle mie idee. Forse per questo ho fatto meno cinema. I film di cui vado orgogliosa sono pochi. Diciamo Metello, La famiglia di Ettore Scola, 7 minuti di Michele Placido e Mado di Claude Sautet, che in Francia ha avuto un grande successo e in Italia non è mai uscito».
Attrice, molto amata dagli italiani, però mai diva. È una scelta?
«Diciamo che sono una che non se la tira. Quando ho cominciato le dive italiane erano Sophia Loren e Gina Lollobrigida, ma non erano i miei modelli. Io guardavo a Glenda Jackson, Julie Christie e Vanessa Redgrave, grandi attrici e grandi donne. In Italia all'epoca le dive erano tutte mogli di registi o produttori».
Impegnata nel lavoro, ma anche nella vita. È stata candidata al Parlamento per il Psi.
«Si, ma non ero fatta per la politica. In quegli anni frequentavamo Claudio Martelli, perché avevamo i figli a scuola assieme. Bettino Craxi mi ha proposto di candidarmi nei collegi di Milano e Roma, ma non andò bene. Credevo, però, nei valori del socialismo. Poi, ci siamo resi conto, che non era tutto come sembrava».
Cosa pensa del movimento Me too?
«Massimo rispetto per le colleghe e solidarietà per chi ha subito molestie. A me, in tutta la carriera, non è mai capitato, forse perché, come mi diceva Corrado Pani, io mi comportavo come un alpino e non davo confidenza. Credo che, anche su questo tema, si debba stare attenti a non passare all'eccesso opposto, colpevolizzando tutti gli uomini. Io, lo dico con sincerità, ho visto spesso atteggiamenti che potevano indurre ad equivoci. Ho visto mamme ben felici di esporre le proprie figlie. So che non è politicamente corretto dirlo, ma è così. Questo senza nulla togliere a chi lotta per denunciare i soprusi. Ogni abuso è intollerabile. Ancor di più se compiuto da chi è in posizione di forza».
Vive a Venezia da sette anni, come mai questa scelta?
«Un po' di colpa, anzi merito, è del Gazzettino! Mio marito, Claudio Rossoni, è un giornalista e tra il 1965 e il '68 ha lavorato in redazione da voi. Un'estate mi ha convinto a fare due settimane di vacanza al Lido, abbiamo alloggiato al Des Bains (apro una parentesi: uno strazio vederlo chiuso) e anch'io ho scoperto il fascino di quest'isola. Anni dopo Claudio mi ha mostrato un annuncio: vendevano un appartamentino a San Nicolò: lo abbiamo acquistato e da lì, col tempo, la decisione di trasferirci in laguna. Una scelta che ci ha reso felici».
Si sente un po' veneziana?
«Direi molto veneziana. Sono innamorata di questa città che mi ha accolto con grande affetto. Dovunque vada sento il calore della gente. Qui c'è ancora il contatto diretto».
Da veneziana per scelta, cosa si sente di dire ai veneziani per nascita?
«Di cambiare un po' atteggiamento. Non si devono lamentare, vivono in una città unica e sta a loro, diciamo a noi, difendere Venezia dalle aggressioni che subisce. So che a parole è semplice: un po' meno turisti e più residenti, incentivando l'arrivo dei giovani. Venezia, nell'era di internet e della connessione, è una città del futuro».
Vittorio Pierobon
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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