L'INTERVISTA
Francesco Pecoraro, 74 anni, romano, architetto, scrittore, poeta.

Giovedì 12 Settembre 2019
L'INTERVISTA
Francesco Pecoraro, 74 anni, romano, architetto, scrittore, poeta. Ha esordito a 62 anni con Dove credi di andare. È in corsa per il Campiello con Lo stradone(Ponte delle Grazie, 446 pagine, 18 euro).
Il suo libro non si presta a venire riassunto, qualcuno ha parlato più di saggio che di romanzo.
«Forse non è il caso qui di affrontare la questione della definizione di un libro in base alla quantità di narrativa o di saggistica che vi sono contenute. Nello Stradone mi interessava raccontare i pensieri e le valutazioni - e se vogliamo le disperazioni lo sconcerto - di un uomo del Novecento che è costretto a affrontare l'ambiente umano e fisico dell'oggi. Se saggistica è anche narrazione del pensare di un personaggio, in questo caso di un io narrante che non coincide con l'autore, allora Stradone è un romanzo-saggio, anche se per me resta un romanzo e basta».
Ci sono tre linee di narrativa: la storia personale; il luogo dove vive; il presente nel quale solo i pensionati garantiranno un futuro
«Esatto. Ribadisco che, anche se sono anch'io un novecentesco, il libro non è auto-biografico. Mentre la questione dei pensionati non sono sicuro che stia nei termini prospettati dall'io narrante. Se il capitalismo non ce la fa, crolla tutto e addio anche ai pensionati. Questo succede naturalmente se la politica non riesce a immaginare un futuro diverso dall'attuale presente».
Nello Stradone c'è una novità, una lingua che resiste alla discarica come ha detto un critico. Per qualcuno ci sono analogie con Gadda.
«Nella lingua che vi si parla c'è molto di una città. E mi sono detto che se volevo scrivere di un brano di città nell'oggi non avrei potuto prescindere dalla parlata locale, che è vera lingua madre di chi vi è nato e cresciuto. Senza il dialetto la Città di Dio non riuscirebbe a esprimersi compiutamente per quello che è. Nel libro il discorso basso è come un polo negativo che annulla e annichila qualsiasi articolato tentativo di analisi. Gadda è stato sin qui un riferimento importante per tutto il mio lavoro».
Lo Stradone può essere letto anche come il racconto di certa Italia di oggi: il quartiere diventato selvaggiamente città; il pensionato arrabbiato che non ritrova i valori del passato; il mondo operaio scomparso
«Tutto ciò che scriviamo è direttamente o indirettamente un racconto dell'oggi. Il tassello di città dove si svolge Lo Stradone pur essendo non del tutto tipico, o forse proprio per questo, funziona abbastanza come parte per dire il tutto. Se questo tutto è il Paese in cui viviamo direi che deve deciderlo il lettore. Non mi sembra che nessuno abbia tradito il Paese. Piuttosto è il Paese che si esprime politicamente per quello che è: un coacervo ignorante e invecchiato di persone che non si riconoscono più come condividenti una cultura e una condizione di fondo comuni, con enormi problemi comuni da affrontare, e si ripiegano sul fascismo naturale che abita ciascuno di noi e che si combatte sin dall'infanzia con la cultura».
È anche la metafora del Novecento italiano attraverso la storia di un quartiere che è stato operaio e che oggi è fatto di serrande abbassate, rifiuti, immigrati, spaccio, razzismo, sessismo, etnie in conflitto, liquefazione dei partiti, rassegnazione
«Nel libro non c'è alcuna intenzionalità metaforica. Se salta fuori la metafora è perché il testo descrive abbastanza fedelmente una porzione di reale».
Il Pensionato accompagna le sue riflessioni sulla fine dell'utopia politica.
«Lenin passò per Roma una sola volta per andare a Capri da Gorkij dove rimase più o meno una settimana. La politica, per come l'ha conosciuta l'io narrante del libro, non esiste più. Al suo posto c'è qualche altra cosa che lui non capisce e che gli è profondamente estranea. Credo che sia una condizione comune a tutti coloro che si sono formati e hanno vissuto la maggior parte della loro vita nel Novecento. Nel libro c'è la gente dello stradone, in genere piccolo borghesi slittati nella condizione indefinibile di quello che chiamo il ceto medio esteso, che si piace com'è e sembra non avere più aspirazioni al salto di classe, anche perché a sua volta la borghesia non esiste più. Quanto alla deriva populista direi che non è più un'eventualità pericolosa, ma un concreto dato di fatto».
Lei descrive un neoproletariato che sogna tre cose che cominciano per F: fitness, fashion, fiction
«Le tre Effe sono una citazione esplicita dal libro di Tommaso Labranca che si intitola Neoproletariato. Il neoproletario non è asservito alla macchina in un posto chiamato fabbrica, è piuttosto asservito a una cultura, al dover essere/apparire contemporaneo imperniato su tenersi in forma, sulla bellezza, sulla narrazione, cioè sulla percezione emozionale, piuttosto che razionale, della realtà. Insomma, è solo un altro modo di parlare della deriva populista».
Infine, il Bar Porcacci: tramezzini, caffè, spritz, la Peroni, il calcio parlato. Ligabue, Vasco, Zucchero, Eros Ramazzotti, soprattutto Biagio Antonacci
«Oggi è vero solo in parte. Nei sei anni che mi sono serviti per scrivere il libro è cambiata anche la musica del Porcacci. È roba diversa, che non conosco. Anche gli avventori sono cambiati: meno pensionati e meno operai rumeni, più trenta-quarantelli molto tatuati, meno sagaci nella battuta, meno arguti nell'uso del linguaggio della città. Per me indecifrabili, nel senso che non riesco a immaginare niente di ciò che pensano. E nemmeno di ciò che fanno per vivere. Ma non stazionano, consumano e vanno via
».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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