L'INTERVISTA
Francesco Guidolin, di Castelfranco, 65 anni, ex calciatore, allenatore

Lunedì 11 Maggio 2020
L'INTERVISTA
Francesco Guidolin, di Castelfranco, 65 anni, ex calciatore, allenatore premiato anche con la Panchina d'oro, è patito del ciclismo e in nome di questa passione scala le vette e commenta alla radio e in tv le tappe di Giro e Tour.
Contento che il ciclismo ritorni col Giro d'Italia a ottobre?
«È una speranza, quella che si ritorni a fine estate alla normalità. E poi mi piace dire che comincia dal 3 ottobre che è il giorno del mio compleanno».
E il calcio?
«Adesso bisogna guardare alla salute prima di tutto, siamo stati investiti da qualcosa che ci ha impauriti, sta flagellando il mondo intero. Parlare ora di calcio in termini di ripresa è prematuro, ci vogliono le condizioni sanitarie adeguate. Ho l'impressione che la gente solo perché ha la mascherina si senta invincibile, ma la cosa più importante è rispettare la distanza. Siamo stati bravi fino adesso, guai a rovinare tutto. Mi sembra di poter dire che l'Italia ha fatto un buon lavoro e anche che Zaia si è mostrato un ottimo mister. Ci manca tanto la famiglia inglese di mio figlio Giacomo e il mio nipotino Gabriel; l'altro figlio Riccardo vive in Veneto».
Come fa a dividersi tra il calcio e il ciclismo?
«Per me sono sullo stesso livello, quando ero bambino c'era il pallone e c'era la bicicletta. Si facevano grandi sfide a calcio e in bici. L'amicizia con Egidio Fior è nata con la bicicletta. Poi Castelfranco è una terra fertile, abbiamo un campione del mondo, Ballan. Da ragazzino ho vissuto l'epopea di Eddy Merckx, per me il più grande. Se dal mio lavoro avessi potuto depennare le conferenze stampa lo avrei fatto, ma al Giro d'Italia mi piace parlare alla radio o in tv, mi piace che la gente mi riconosca. Una capatina al Tour l'ho fatta quasi sempre negli ultimi vent'anni. Ho scalato le montagne più belle d'Italia e di Francia, la differenza si vede soprattutto lassù». Guidolin ha giocato per 15 anni, ha allenato per trenta. Con 555 panchine è tra i primi dieci allenatori nella storia della serie A, dietro Rocco, Trapattoni e l'insuperabile Carletto Mazzone. Ha portato nella massima serie Vicenza, Palermo e Parma, ha vinto una Coppa Italia col Vicenza e ha sfiorato la Coppa delle Coppe; è stato più volte in testa alla classifica. Un misto di talento e voglia di fare in proprio, di testardaggine e di innovazione. A scuola da Sacchi, allo specchio da Klopp. Si è dimesso ogni volta che si sentiva ristretto: «Ho chiuso dopo l'esperienza inglese, forse ricomincerei all'estero dove c'è meno tensione. Non conta se la squadra è importante, nemmeno contano i soldi. Per soldi lo avrei fatto prima, ho rifiutato richieste dalla Cina e dagli Emirati. Mi piacerebbe un progetto serio, magari vicino a Londra».
Col pallino del pallone fin da bambino?
«A Castelfranco abitavo in viale della Stazione c'era un campo di quelli veri con l'erba. La mia infanzia la ricordo sempre con un pallone tra i piedi, papà che aveva un negozio di generi alimentai me ne regalava sempre uno nuovo. Dicevano tutti che ero il più bravo, così sono andato al Giorgione, dove ho fatto la trafila sotto la competenza straordinaria e l'umanità di Toni Guarise. Ho esordito in prima squadra in serie D a 16 anni, facendo anche un gol: c'era da battere un calcio di rigore e Toni diede a me la responsabilità. Mi tremavano le gambe, ma volete mettere un esordio con una rete? C'era stato l'interesse della Juventus e del Napoli, ma i genitori non volevano che mi allontanassi troppo da casa. A 17 anni hanno accettato che mi trasferissi a Verona, a patto che superassi l'esame di maturità liceale. Così ho incominciato col Verona, aggregato alla prima squadra per il precampionato del 1973. L'allenatore Giancarlo Cadè mi giudicava un ragazzino interessante che doveva irrobustirsi».
Come è stato l'esordio in serie A?
«Avevo vent'anni, era il novembre 1975. L'ho saputo la sera prima, ho fatto in tempo a telefonare a casa, poi non ho dormito. Giocavamo contro l'Ascoli e abbiamo vinto. Era il coronamento della mia passione per il calcio, sino a pochi anni prima giocavo con le figurine di quei giocatori che adesso incontravo sul campo. Poco dopo sono stato convocato da Azelio Vicini nella Nazionale Under 21: c'erano Paolo Rossi, Giovanni Galli, Manfredonia, Cabrini, Giordano, Beccalossi».
Era un mondo facile e felice?
«Dopo i primi due anni in cui sembrava tutto bellissimo, il Verona mi ha mandato in B alla Sambenedettese. Il treno è ripassato quando al Verona è arrivato Osvaldo Bagnoli ed è incominciato il ciclo che avrebbe portato fino allo scudetto. Eravamo in B e siamo stati promossi in A, Bagnoli mi ha dato subito la possibilità di mettere in mostra le qualità e mi ha dato la fascia di capitano. Poi hanno aperto le frontiere e nel mio ruolo il Verona ha preso Dirceu; io avevo 28 anni e sono andato al Bologna dove ho avuto un gravissimo infortunio. Ho smesso a 30 anni, dopo due campionati a Venezia in C, sono stati belli ma io sapevo che non ero più quel giocatore che avrebbe potuto fare la differenza».
Così è incominciata la seconda carriera: da calciatore a allenatore?
«Al Giorgione speravano che avessi voglia di giocare ancora, ma non avevo più la testa del giocatore, così mi diedero da allenare la squadra giovanile e questo mi consentiva di conciliare il calcio col nuovo lavoro nell'azienda di pneumatici di mio suocero. Ma non c'era gara: mi piaceva troppo il campo. Dal Giorgione al Treviso sempre in C2, col Fano in C1, ancora più avanti Ero forse troppo giovane per l'Atalanta che mi ha chiamato in serie A nel 1993, ma non ho saputo resistere, la prudenza non è mai stata la mia arma migliore. Mi sono rifatto l'anno dopo col Vicenza in B e lì è cominciata la mia vera carriera: promozione in A, Coppa Italia, semifinale di Coppa delle Coppe, battuti dal Chelsea di Zola e Vialli. Ero il giovane allenatore più richiesto, anche dall'Inter di Moratti e dalla Lazio di Cragnotti. Ho preferito restare dove avevo trovato la dimensione ideale, poi sono andato a Bologna, Palermo, Udine, al Monaco in Francia, in Inghilterra nella Premier».
Le è mancata la grande squadra?
«Ho fatto sempre tutto da solo, non avevo procuratore e questo non mi ha favorito. Certo, mi sarebbe piaciuto andare in un grande club, con la Juve sembrava fatta, poi hanno scelto Capello. Dal 2010 sono stato io che ho detto di no a qualche grande squadra: negli anni all'Udinese, mi voleva il Napoli».
La sua squadra più bella?
«Il Palermo e l'Udinese del 2010 assieme al Vicenza del 1997 quando abbiamo vinto la Coppa Italia. E se devo indicare tre giocatori simbolo scelgo Amauri, Di Natale e Otero. Ho avuto la fortuna di allenare attaccanti formidabili: Signori, Vieri, Sanchez, Crespo. Il più grande che ho visto, non ho dubbi: il Ronaldo dell'Inter».
Cosa ha significato la Panchina d'oro nel 2011?
«Ho provato una grande soddisfazione, anche se l'avrei meritata prima e anche subito dopo, quando con l'Udinese siamo arrivati terzi nonostante la cessione di Sanchez. Il premio l'ho dedicato alle persone che più hanno contato nella mia vita: mia moglie Michela, mio padre Rino, mia madre Iolanda, anche se mio padre non c'era più e mia madre era gravemente ammalata».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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