L'INTERVISTA
È Menichino da Latisana, bovaro, che dice: «Siamo benandanti,

Giovedì 3 Dicembre 2020
L'INTERVISTA
È Menichino da Latisana, bovaro, che dice: «Siamo benandanti, siamo nati con la camicia, tre volte all'anno ci rechiamo in spirito nel prato di Josafat, a lottare con le streghe e gli stregoni per la fertilità dei campi. Combattevamo, ci tiravamo i capelli, ci davamo dei pugni, ci buttavamo per terra e combattevamo con le gambe di finocchio». Le streghe usavano fasci di sorgo, una graminacea conosciuta anche come grano di Siria. Nella lotta tra benandanti (sorta di sciamani della società rurale), che cavalcavano lepri gatti e altri animali e che si svolgeva ad ogni cambio di stagione contro le streghe, su scope, se vincevano i primi c'erano raccolti buoni, nel caso contrario disastri e carestie.
La persona che legge il manoscritto del 1591 tratto dal fondo del Sant'Uffizio, processi per stregoneria - è seduta ad un tavolo dell'Archivio di Stato ai Frari, Venezia. È il 1962 e quel giovane studioso non ha mai sentito prima la parola benandanti. Nessuno da 500 anni, prima di lui aveva letto quelle carte. Capisce di trovarsi davanti a qualcosa di eccezionale.
Adesso quell'opera viene riedita da Adelphi (311 pag; 24 euro) con un'illuminante postfazione dell'autore titolata cinquant'anni dopo. I benandanti si collocavano in un culto agrario derivante da antiche tradizioni contadine diffuse in tutto il Centro-Nord Europa che si incontravano nella figura mitica della Frau Holle nel mondo germanico, nei Kerstniki del mondo slavo, o i Tlatòs sciamanici del mondo ungherese. Ma alcuni riti benandanti, apparsi tra il XVI e XVII secolo e noti anche nel Veneto - sono sopravvissuti fino a metà del 1900 nelle valli del Natisone in Friuli Venezia Giulia, e memorie erano ancora viventi fino al 1972.
«Cercavo storie di vittime della persecuzione della stregoneria. Tengo molto al caso ma è bene essere aperti all'imprevisto. All'archivista chiesi a caso delle buste numerate, dal fondo processi per inquisizione. E trovai Menichino».
Dei benandanti si era persa la memoria, adesso sono ricomparsi e girano per il mondo .
«Ho scoperto un complesso rock con quel nome, bed & breakfast e agriturismo in Friuli. Dalla rete arrivano le notizie di un fumetto».
Che Friuli scoprì durante quella ricerca? Qualcuno sostiene che i benandanti possano essere anche vessilliferi dell'identità friulana.
«Il Friuli è altro da molte regioni. Anche il friulano è un'altra lingua. Quanto poi alle persone non credo all'identità nazionale né a quelle regionali o cittadine, si figuri. Ma tra le persone incontrate in Friuli ho trovato Aldo Colonnello maestro a Montereale Valcellina, persona straordinaria. L'ho conosciuto dopo aver scritto Il formaggio e i vermi. Ho incontrato don Gulielmo Biasutti ad Udine; l'archivio vescovile era inaccessibile a studiosi e quando riuscii ad avere una lettera di presentazione: Biasutti mi fece entrare. Dopo l'Inquisitore, la prima persona che apriva quegli scaffali ero io e capii chi erano i benandanti. Ho lavorato lì sempre completamente solo: una volta non riuscii nemmeno più ad uscire da quell'archivio, mi ero perso. Col Friuli ci sono stati rapporti molto forti e mi sono commosso quando sono diventato cittadino onorario di Montereale Valcellina».
Incontrare quelle carte dopo secoli è stato straordinario. Che ha provato?
«Su quel tema non c'erano studi. Credo di aver trovato allora una lettera di Giuseppe Vidossi che chiedeva che cosa volesse dire benandante: lo studioso del folklore friulano non sapeva cosa voleva dire quel termine. Avevo una sensazione anomala di unicità. Poi arrivò linterrogatorio di Menichino da Latisana: allora pensai agli sciamani siberiani».
C'è una koinè che si fa vedere sullo sciamanesimo. Lei scrive che per il Friuli la stregoneria diabolica si diffuse come deformazione di un precedente culto agrario.
«Sono partito da un fenomeno molto specifico e ho cercato di trovare analogie sia nei benandanti e poi in scala maggiore nel libro Storia notturna. Più si privilegia lo studio di un caso e più si privilegia la comparazione».
Da un suo collega-amico Gaetano Lettieri è stato accusato di aver lasciato da parte la Bibbia. I benandanti che vanno nella valle di Josaphat. Ma lei non lo riporta; una lacuna parrebbe. Però risponde con Donna Bisodia che rieccheggia il liberaci dal luamen di Meneghello.
«Qui c'è problema enorme, quello della diffusione della Bibbia: c'era chi poteva leggerla e chi no, però sentiva le prediche e quindi metteva in atto una rielaborazione. In questi, percorsi c'è un continente tutto da scoprire sulla vitalità del testo attraverso le sue deformazioni e rielaborazioni; sempre esistite le ibridazioni tra cultura alta e bassa. Alle obiezione di Lettieri rispondo con la lettera di Gramsci alla sorella dove ricorda della zia Grazia che credeva fosse esistita una Donna Bisodia. La parola deriva dal latino del Pater Noster: dona nobis hodie diventa Donna Bisodia, tipico di chi non sa il latino. Ho trovato Donna Bisodia in Sardegna e in Liguria, ma qui andiamo ancora a tentoni. Donna Bisodia appare nel 1300; sa che scrivendo quel nome su Google ho trovato un documento medievale dove una donna si chiama proprio Bisodia?».
Anche in una poesia del 1986 La Teresa ricorda quell'anziana di Pieve di Soligo che invocava, prima di dormire, Gotamo, cioè Gautama Budda.
«Bisogna capire quanto Zanzotto abbia messo di suo. Bellissimo».
Ritornando al Friuli sa che una volta (ero tornato da un viaggio tra gli sciamani peruviani) mi chiamano i carabinieri che stavano facendo indagini sui fatti magici notturni...
«Ah (sorride); credo che ci sia stata gente che può aver letto Castaneda e altro; o si muove su ricordi di fiabe che ha sentito. Qui si entra in territori dove la documentazione disponibile è sempre inferiore rispetto alle nostre domande».
Esagera chi dice che tornare un po' stregoni e sciamani sarebbe tornare ad un dialogo con un presente che non conosciamo, per capire l'ambiente che cambia? Per interpretare la crisi della contemporaneità?
«Accetto la domanda ma non accetterei la risposta. Perché la risposta tende ad essere troppo veloce. Questo senso della fragilità dell'ambiente verrà rielaborato culturalmente da chi ignorava questo tema. Ma non si sa in che modo e con che tempi. Prima di parlare di sciamani penso che ci sia da riflettere. Questa crisi pone un problema realistico, ma non so quale sia la risposta. Noi storici dobbiamo guardarci da risposte troppo veloci.
Uno studioso, Paolo Fossati, le fece notare che era logico che un ebreo come lei studiasse il mondo magico e le vittime della persecuzione della stregoneria.
«L'analogia tra streghe ed ebrei mi era rimasta inconsapevole. Emerse di colpo, quando avevo più di trent'anni e avevo scritto vari libri. Averla rimossa per tanto tempo mi parve incredibile, una strategia dell'inconscio per rendere la connessione più forte, produttiva».
Adriano Favaro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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