L'INTERVISTA
Da 260 anni cè sempre un Rossetto che macina il grano per i

Lunedì 26 Ottobre 2020
L'INTERVISTA
Da 260 anni cè sempre un Rossetto che macina il grano per i veneti. Il primo documento trovato in una chiesa di Bassano del Grappa riguarda la nascita di Angelo figlio di Sebastiano mugnaio. I sacchi di farina di Angelo hanno accompagnato la fine della Serenissiua. E c'è stato un mugnaio Rossetto quando è nata l'Italia, quando sul Grappa si è vinta una battaglia della Grande Guerra e quando, nell'altra guerra, sul Grappa i nazifascisti hanno fatto strage di partigiani appendendone i corpi agli alberi del viale di Bassano.
Sulle rive del Brenta e poi su quelle del Bacchiglione i Rossetto hanno macinato quasi tre secoli di grano. Era un Veneto ricco di mulini, il più grande era quel fantastico castello gotico a Venezia, lo Stucky, ora trasformato in albergo.
Oggi al vertice dei Rossetto c'è una mugnaia, Chiara, 50 anni; non è più il tempo dei mulini ad acqua, le macchine fanno quasi tutto, basta premere un pulsante per mettere in moto un mondo. Il nuovo stabilimento a Codevigo, nella Bassa Padovana, occupa 40 mila metri quadrati, produce in un anno 30 milioni di pacchetti di farina di ogni genere. Il fatturato è di 45 milioni di euro, i dipendenti sono 120.
A Pontelongo resta come sede storica l'antico mulino Camilotti acquistato dal padre Carlo cinquant'anni fa e dal quale è nata l'azienda moderna dei Rossetto. Pontelongo è stato agli inizi del Novecento uno dei centri dell'economia dell'intero Veneto; il fiume Bacchiglione era la fonte d'energia elettrica della Bassa, sulle rive era stato aperto il grande zuccherificio e il fumo delle due ciminiere più alte si vedeva a chilometri di distanza. In paese non lo chiamano lo Zuccherificio ma el Beljo, il Belgio, perché il capitale era di industriali belgi. Le casette dei dirigenti avevano caldaie a carbone che ogni mattina gli operai dovevano caricare. La gente non diceva andiamo a Pontelongo, ma al paese dello zucchero.
È quello l'inizio dell'azienda Molino Rossetto?
«Proprio sull'ansa del Bacchiglione, sono nata a Bassano del Grappa, ma praticamente sono cresciuta in quel mulino assieme a mio fratello Paolo. Era il posto dei nostri giochi e la nostra casa e macinava 24 ore al giorno, più la ruota girava più il mugnaio era contento. Serviva un controllo a vista continuo, con mio fratello andavamo su e giù per le scale per controllare che dai tubi non uscisse la farina».
Come è stato tramandato il mestiere dei mugnai?
«Quel documento di Bassano è la prima attestazione del mestiere di famiglia che era originaria di Montecchio: il primo molino fu donato dalla contessa del luogo a un Rossetto che era mugnaio del feudo. Mio nonno paterno Angelo macinava il grano degli altri: col carretto trainato dal cavallo raccoglieva i sacchi di farina dalle aziende agricole, il costo della lavorazione era pagato in grano e fu allora che decise di rischiare in proprio. Aveva cinque figli maschi ai quali ha comprato un mulino a testa, poi solo mio papà e uno zio hanno continuato. Il nonno raccontava che tra i cinque fratelli maschi la farina veniva raccolta nei sacchi e c'era l'arte di chi sapeva chiuderli meglio, di chi faceva la rosetta più bella. La famiglia aveva un mulino a Bassano, uno a Montebelluna a un altro antico a Friola di Pozzoleone al confine tra le province di Padova e Vicenza».
Come è stato l'ingresso in fabbrica?
«Nostro padre ha subito aperto la porta della fabbrica ai figli. Lui amava definirsi un imprenditore democratico, ci ha fatto entrare in azienda molto giovani e ci ha concesso autonomia. Loro andavano in vacanza venti giorni all'anno e ci lasciavano soli con un blocchetto di assegni firmati per le emergenze. Ci seguiva, ci guidava, però ci lasciava lavorare e anche sbagliare. Siamo cresciuti con la consapevolezza che il nostro lavoro da grandi sarebbe stato quello. Ho studiato ragioneria non perché l'avessi scelto, ma perché c'era bisogno di fare i conti e l'ufficio per me erano solo carte, senza fantasia. Il giorno del diploma nel pomeriggio ero già al lavoro. Era un mondo lavorativo molto maschile, e io che sono una persona creativa, appassionata di cucina e di ricette, mi sono ritrovata ristretta in questo lavoro. Da quel momento è partita anche la mia sfida personale: fare qualcosa di mio nell'azienda di famiglia. Devo dire che sono riuscita a creare un marchio che oggi è in tutta Italia. L'inizio vero è stato agli inizi degli Anni '90 quando ci siamo aggiudicati una commessa dell'Ue per aiuti umanitari in Kosovo dove c'era la guerra. Erano pacchi di farina da un chilo, tantissimi. Noi dovevamo acquistare il grano, macinarlo, fare farina e spedirlo. Quando fortunatamente la guerra è finita, ci siamo ritrovati con macchinari nuovi da utilizzare e il mondo dei supermercati da scoprire. Papà diceva che negli scaffali di qualsiasi supermercato c'erano sempre farina-zucchero-sale. Bastava entrare in quel mondo, ho incominciato con la distribuzione nei discount».
Come è stato entrare nella grande distribuzione?
«Nel 2002 ho scoperto il grano kamut, un antico cereale con proprietà caratteristiche e la curiosità mi ha portato a produrre questa farina in anticipo sul mercato. Ho cercato di capire cosa volesse la clientela, ho seguito corsi di cucina, ho creato farine alternative, spinto per il pane fatto in casa e capito che mancava la confezione da mezzo chilo, quella giusta per evitare sprechi in cucina. Siamo stati tra i primi, nella grande distribuzione, a creare le categorie delle farine. In pochi anni da un mercato zero siamo cresciuti a livello nazionale, tanto da dover acquistare un grande magazzino che offrisse lo spazio per conservare i cereali».
Che cosa è un molino nel Duemila?
«Serve come sempre per la trasformazione del grano, ma il lavoro del mugnaio oggi è selezionare i cereali per capire quali sono i più adatti. Non si tratta più solo di trasformare il grano in farina, ma di creare valore sostenibile, anche sociale e ambientale. Le due cose che ci vengono chieste sono la qualità e la sostenibilità. Il nostro lavoro è trovare prodotti che diano risposte al consumatore, che suscitino emozione e che non costino troppo. Puntiamo anche sui prodotti artigianali locali, portare il nostro prodotto dal Veneto al resto d'Italia. In Puglia mi hanno chiesto la farina di Grano Arso, non sapevo nemmeno cosa fosse, ma il cliente era importante. Un tempo bruciavano il campo per pulirlo dopo la trebbiatura e rimanevano sempre delle spighe che qualcuno raccoglieva e macinava, ne restava una farina che veniva scambiata favorevolmente con farina bianca. Ma era più buona e si prestava a ricette speciali, a Cerignola c'è un mulino che macina questo grano arso e serve per fare orecchiette buonissime. In due anni sono riuscito a produrlo e a venderlo ai pugliesi, oggi è uno dei nostri prodotti più richiesto all'estero».
Come vi ha cambiato il Covid 19?
«Non è stato semplice gestire un'azienda in sistema di sicurezza, lavorare da casa, soddisfare tutti i nostri clienti che chiamavano dalle 6 del mattino alle 10 di notte. Certo è aumentata la produzione ed è cambiato il consumo: quando c'è stato il lockdown le persone si sono ritirate in casa, con tanto tempo disponibile. Abbiamo ritrovato il piacere di mettere le mani in pasta, tutti hanno fatto torte, pizze, focacce. Il piacere di una cosa fatta in casa con ingredienti di cui sai tutto».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci