L'INTERVISTA
Come si può rilanciare l'immagine di Venezia dopo il Covid

Lunedì 13 Luglio 2020
L'INTERVISTA
Come si può rilanciare l'immagine di Venezia dopo il Covid e dopo l'alluvione?
«Questa è la città più nella del mondo, ma ultimamente ha subito danni d'immagine molto forti, la cronaca tende a evidenziare il problema e mai la soluzione. Molti americani a sei mesi dall'acqua alta mi chiedono: ma a Venezia si può ancora camminare? Venezia e Parigi sono le due città più romantiche al mondo, ma Parigi comunica meglio. Devi capire che il tuo passato da solo non basta, Venezia deve fare marketing nuovo, reinventare i luoghi. C'è bisogno di tattica: non basta un Carnevale a febbraio, deve esserci un programma per ogni mese. Venezia paga l'eccesso di frequenza, invece è una boutique esclusiva e devi avere le caratteristiche per entrarci. Le Grandi Navi non c'entrano con queste caratteristiche. Si è cercata la quantità e la qualità non c'è più. C'è, però, tutto quello che serve per fare qualcosa di unico».
Lorenzo Marini di mestiere fa il creativo, trasforma i prodotti in emozioni. Padovano di Monselice, 64 anni, agenzie a Milano, New York e in California, una laurea in architettura, adesso espone a Venezia, in Piazza San Marco, fino al 30 agosto. Un omaggio alla città attraverso l'alfabeto: A come Accademia, R come Radici, S come la forma del Canal Grande. È un modo di dire Ben tornato in città: l'arte dopo le piazze deserte.
Dice: «Colleziono attimi per divertirmi nella vita». Ha dedicato attimi alle auto e agli alcolici, al vino e al tonno. Ha inventato slogan che sono entrati nel linguaggio comune: Non so voi, ma io bevo Aperol Silenzio parla Agnesi.
Ma creativi si nasce?
«Di recente mia mamma Zilla ha trovato un tema che avevo fatto alle elementari, di quelli dove ti chiedono cosa vuoi fare da grande. Avevo risposto: il creativo della pubblicità. Ero già convinto. Devo tutto alla mia famiglia, papà Lino era un commerciante interessato alla vendita, mamma Zilla era la parte più sofisticata. Sono cresciuto con questa ambivalenza: il pragmatismo del padre e l'animo sognatore della madre. Per questo all'università ho fatto Architettura a metà strada tra ingegneria e letteratura, la parte razionale matematica e quella fantasiosa di natura materna. Anche la pubblicità me la ritrovo in questo schema: grande fantasia per l'arte, creatività per la pubblicità. È come nello sci: lo slalom è creatività perché ci sono le bandierine; la discesa libera è fantasia perché non ci sono limiti».
E Monselice è stata l'incubatrice giusta di questa passione?
«Crescere in una cittadina mi è servito molto, hai meno stimoli esterni e li crei dall'interno, la fantasia aiuta. Grazie anche ai due fratelli, Simone e Beatrice, mamma ha scelto nomi bellissimi. Ho frequentato il Liceo Artistico a Padova e mi sono innamorato perdutamente dei fumetti spinto dal mio insegnante Piero Mancini. Il fumetto è un rapporto instabile tra immagine e parola. La mia adolescenza è caratterizzata dal disegno, dalla china e dal foglio bianco. Amo Crepax per l'architettura degli spazi, Manara per il segno sensuale, Pratt per la poetica del racconto».
Come mai ha scelto architettura?
«Allora non c'era una scuola di pubblicità. Si andava a bottega e ho pensato che fosse meglio avere una laurea. Mi mancava il disegno e visto che ero a Venezia mi sono iscritto anche all'Accademia dove ho incontrato Emilio Vedova che è il segno nero sul bianco, l'atto istintivo. Ma non puoi fare contemporaneamente due facoltà, così ho dovuto lasciare l'Accademia per laurearmi. Però non ho mai costruito qualcosa, ho chiesto subito asilo politico a Monselice nello studio della bravissima Margherita Petranzano. Io facevo il grafico, volevo tutto in fretta, appartengo alla generazione del Nesquik: il cioccolato deve sciogliersi immediatamente nel latte. Intanto, mi sono innamorato di mia moglie Mari, lei studiava a Padova, adesso insegna arte fiamminga e olandese al Bo'. Il mio romanzo storico L'uomo dei tulipani, ambientato nell'Olanda del 600, lo devo alla cultura che lei mi ha trasmesso».
Come è stata la strada per diventare finalmente un creativo?
«Dopo la laurea vado a Milano, è meglio essere un semplice giocatore di una grande squadra che il proprietario di una piccola squadra. Siamo negli Anni '80, il decennio del successo di ogni cosa, c'era la moda, c'era l'attenzione dei media. E pensi che non finisca mai. Il vero nemico dei creativi semmai è l'ego. Ho anche avuto la fortuna di essere stato licenziato mentre ero al massimo della carriera, al vertice della Armando Testa l'agenzia più importante. È accaduto dopo la morte di Armando. Ho fatto il bilancio in un libro metà saggio e metà romanzo dei miei sette anni nel mondo della pubblicità: avevo quadruplicato lo stipendio in pochi anni, ero nella più grande agenzia italiana, avevo vinto il Leone d'oro e una serie di altri premi. Ho 400 premi, più o meno dieci all'anno. Li tengo, come diceva Einstein delle sue lauree ad honorem, nell'angolo della vanità del mio studio. Ho scritto anche romanzi d'amore e saggi, poi ho smesso perché l'italiano non legge, ce ne sono pochi che leggono per molti. Così sono ritornato a dipingere, ma per vent'anni non ho fatto vedere niente a nessuno».
Quando ha incominciato a esporre questi quadri?
«Negli anni '90, che son quelli del design arrotondato e dei colori, faccio questo lavoro parallelo di pubblicità e di arte. A 40 anni ho anche aperto un'agenzia col mio nome e continuo a dipingere la notte. Fino a quando, sei anni fa, incontro un art-manager che resta affascinato della mia arte povera: è incominciata così l'avventura di Lorenzo Marini artista che divido nettamente dal Lorenzo Marini della pubblicità. In fondo, sono pagato per fare dei marchi che sono grafica, come quelli della Lavazza o di Fastweb. Ho iniziato a dipingere le lettere che sono dei marchi senza clienti, ma sono al tempo stesso pezzi di architettura, diventano edifici, microstorie. Decido di scoordinare il coordinato, un po' alla maniera dei Futuristi, e ho creato questo Manifesto per la liberazione delle lettere dove si afferma l'individualità della bellezza, della poesia. La prima mostra pubblica l'ho tenuta a Milano al Museo della Permanente e ha attirato l'attenzione di un gallerista di New York che ha portato in giro il mio Alfabeto per tutti gli States».
Che cos'è la pubblicità?
«È la trasformazione di un oggetto in un'emozione, la pubblicità è la vita del prodotto. Prima era come la Nutella che andava bene su ogni pezzo di pane, ma oggi siamo più distratti: la metà di chi guarda la tv ha davanti anche un altro mezzo, il cellulare, il pc, l'iPad. L'atto dell'acquisto si sta spostando sul digitale. Ma la pandemia ha cambiato anche questo mondo e la pubblicità ha successo quando incarna la sociologia del momento. Se Toscani ora non va più di moda è perché ha sempre usato la provocazione che quando hai paura non può funzionare. Non a caso il Papa ha fatto un libro intitolato Non avere paura. Devi arrivare sempre al momento giusto. Noi facciamo il surf, l'onda la devi beccare esattamente al momento giusto».
E oggi che succede nella pubblicità?
«Funziona se il prodotto funziona, occorre la qualità. Compro una marca come scelgo un amico: non per somma algebrica di pregi e difetti, ma perché è come me, rappresenta il mio mondo. La parola chiave del prossimo decennio sarà affinità. Il grande cambiamento è che dal monologo si è passati al dialogo: la marca non parla più, deve anche ascoltare e farsi portavoce dei bisogni della società. Il passaggio dal commerciale al sociale è una scelta obbligatoria, come l'attenzione all'ambiente. Ma devi stare attento, sei il funambolo sul filo. La pubblicità è parziale, non ti dice tutto, ma non può dire una bugia».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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