L'INTERVISTA
«Che sarei diventato regista teatrale me l'ha fatto capire

Lunedì 28 Settembre 2020
L'INTERVISTA
«Che sarei diventato regista teatrale me l'ha fatto capire un compagno di corso al Piccolo Teatro di Milano. Stanco di sentirmi sempre intervenire, ha sbottato: Se vuoi dire a tutti quello che devono fare, allora siediti là al posto del regista e smettila di rompere. Ha sintetizzato la mia vera vocazione che non era quella di recitare o di scrivere, ma quella di dirigere. Da lì è partito tutto».
Damiano Michieletto, nato a Scorzè, 45 anni, due figli (Viola 18 anni, Daniele 13) racconta come è nata la sua carriera. Oggi è il regista italiano d'opera più richiesto nel mondo; ha già impegni per i prossimi cinque anni. Talvolta ha destato scandalo per la sua messa scena.
Le piace provocare?
«Artisticamente la provocazione e lo scandalo fanno parte della creatività. Non mi pongo mai l'obiettivo di scandalizzare, ma di raccontare bene una storia, di renderla attuale, teatralmente più potente, non di edulcorarla. Nel fare questo uso l'estetica e un linguaggio teatrale contemporaneo. Anche a livello interpretativo ho totale e assoluto rispetto per il testo, per il libretto, ma non per le didascalie. La musica e la parole sono l'opera, il resto si apre all'immaginazione e il teatro è la casa dell'immaginazione».
Qualche critico ha detto che lei ha tolto la noia all'opera?
«Forse chi dice così non ama l'opera. L'opera è un genere potente e l'idea di raccontare una storia attraverso la musica non morirà mai. Bisogna non dare le cose in maniera scontata e ricordare sempre che il teatro racconta la vita di ieri e di oggi. Non deve essere una celebrazione fine a se stessa, sono storie che sono spremute di vita, in due ore ci sono 50 anni di esistenza. Andiamo all'opera perché amiamo questo tipo di passionalità estrema, espressa attraverso una vocalità estrema».
E la sua spremuta di vita come la racconta?
«Ho vissuto a Scorzè fino ai vent'anni. Una famiglia con due anime molto diverse la mia: il nonno materno faceva il falegname, gli mancavano alcune falangi delle dita che aveva perso sul lavoro. La sua bottega per me era un mondo magico. L'altro luogo era l'officina meccanica di uno zio. La mia infanzia è legata a questi due posti di creatività. Passavo il tempo a piantare chiodi, a segare, a usare il trapano. La famiglia di mio padre Igino era l'ultima generazione di una civiltà contadina completamente scomparsa. Mio padre era il dodicesimo di tredici figli, tutti battezzati con nomi di papi, santi, madonne. Uomo supercattolico, democristiano; mentre il nonno falegname che aveva fatto la guerra da bersagliere era decisamente di destra. Penso di essere stato fortunato a crescere tra queste due anime, una popolare e una conservatrice».
Cosa c'entra il teatro?
«Era un'umanità semplice alla quale sono debitore della mia creatività e anche della mia vocazione teatrale: con tutti questi parenti ogni domenica era un teatro in famiglia. Mio nonno era un grandissimo narratore del tempo della guerra, la nonna lo ascoltava stirando con la carbonella. Era come un filò. Sono legato al dialetto che è stata la mia prima lingua e che non riesco a togliermi, nemmeno voglio toglierla. Ho fatto in tempo a cogliere gli ultimi respiri di quel mondo. Sono cresciuto con la televisione, i cartoni animati, la mia è la generazione di Ufo Robot e i miei preferiti erano il pescatore Sampei e l'incredibile Teppei. Poi a un certo punto su un vecchio giradischi Geloso ho letteralmente consumato il disco Jesus Christ Superstar che ha fatto emergere quello che avevo dentro».
Già a scuola pensava che da grande avrebbe occupato il teatro?
«Ho studiato allo sperimentale Stefanini di Mestre, mi hanno dato una marcia in più professori come lo scrittore Fulvio Ervas e il filosofo Massimo Donà. Mi sono iscritto in Lettere a Ca' Foscari, poi ho fatto il provino per entrare nella scuola Paolo Grassi e mi sono trasferito a Milano. Ho caricato la bicicletta sul treno regionale e in bici dalla Stazione Centrale sono andato all'appartamento, mi sentivo il provinciale che arriva nella capitale».
Come è arrivato alla regia?
«Per colpa di quel compagno che aveva capito tutto. Sono stato fortunato col mio lavoro, ho avuto opportunità e lo ho sfruttate bene. I primi lavori grossi li ho fatti all'estero e da fuori il mio nome è rimbalzato in Italia. La data importante è stata il 2007, ero al Festival Rossini di Pesaro con la regia della Gazza ladra. Avevo 32 anni ed era la mia prima vera grande opera che mettevo in scena, mi è valsa il premio della critica musicale. Ho sentito che era successo qualcosa, quando nell'intervallo è venuto nel camerino il direttore del teatro di Zurigo che era in platea. Mi ha chiesto di firmare subito un contratto per lavorare l'anno dopo in Svizzera. Da allora ho lavorato in tutti i principali teatri lirici del mondo».
La prima volta alla Scala di Milano?
«Nel 2013 con Un ballo in maschera di Verdi. Al pubblico all'inizio non era piaciuto, dal loggione lanciavano biglietti con scritto: Povero Verdi Perdonali non sanno quello che fanno. Non era piaciuto il modo con cui avevo presentato l'opera come se fosse un racconto contemporaneo».
E la scena dello stupro nel Guglielmo Tell a Londra?
«La scena è coerente con la storia raccontata, all'inizio dell'opera si presenta un personaggio che accorre dicendo che ha ammazzato un soldato invasore che ha stuprato la figlia. È questa l'aggressione che il popolo subisce e alla quale Tell si ribella. Essendo una scena realizzata in maniera realistica, con una dose di violenza alla quale il pubblico dell'opera lirica non è abituato, ecco che scatta il disagio rispetto alla crudeltà».
E lo scandalo per Il ballo in maschera?
«Quando fai Verdi alla Scala è sempre molto delicato, vai a toccare l'autore che dà l'identità al teatro. Ho preso l'opera e l'ho raccontata come la storia di un politico di oggi, un uomo di potere diviso tra il suo lato privato e quello pubblico. L'ho trasportata nella realtà immediata, senza filtri. Ho fatto la stessa cosa col Rigoletto a Roma e qualcuno ha perfino detto che sembravo Tarantino. Mi fa un po' sorridere che se nel 2020 tu cambi il costume a un personaggio non puoi farlo perché non è quello previsto qualche secolo fa!».
L'esperienza con la Fenice?
«È fondamentale, mi ha accompagnato tutti gli anni dal 2008, un percorso lungo e i risultati sono arrivati col lavoro. Il primo spettacolo, Romeo e Giulietta, è stato molto contestato, era ambientato in discoteca. Poi il pubblico ha capito che le mie idee non erano trovate, ma quello era il mio linguaggio. Alla Fenice abbiamo anche fatto un'opera nuova, Aqua Granda, con la parete di acqua che crollava. La Fenice ha il coraggio di produrre musiche nuove. Nel futuro dei teatri lirici ci deve essere per forza la novità autarchica: non può essere la solita musica, deve essere una storia di oggi con la musica di oggi».
Sta scrivendo un musical? Ha scritto canzoni?
«È una delle cose che mi piacerebbe musicare, ma devo prima trovare un musicista. Sono in una fase in cui voglio esplorare linguaggi nuovi e il musical lo è. Quanto alle canzoni, ne ho scritte un bel po', è una mia passione da quando avevo vent'anni e mi accompagnavo con la chitarra. Avevo vinto anche un concorso e per un paio di settimane sono stato a Radio Italia col mio Cd e a Radio DJ ho cantato in diretta. Mi sono nutrito di tutto il cantautorato italiano: da Paolo Conte, forse il mio preferito, a De Andrè, Dalla, Guccini, De Gregori, Rino Gaetano. Durante la quarantena ne ho profittato per scrivere una canzone sul Coronavirus».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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