L'INTERVISTA
Caporetto, 24 ottobre 1917: cosa è rimasto nell'Italia 100

Lunedì 23 Ottobre 2017
L'INTERVISTA
Caporetto, 24 ottobre 1917: cosa è rimasto nell'Italia 100 anni dopo?
«È importantissimo sul piano della psicologia collettiva. Caporetto è diventata proverbiale, quasi sinonimo di un nostro modo di essere. Come non è diventato proverbiale Vittorio Veneto, quasi non riuscissimo a capacitarci di aver vinto. Il 4 Novembre è stato mimetizzato come la fine della guerra e non come la Vittoria, la più grande vittoria della storia d'Italia. Forse fa parte dell'identità, del senso del Paese: ci riconosciamo più realisticamente nelle sconfitte che nelle vittorie. Avviene anche per il Risorgimento. Nel 2011 c'erano i 150 anni dello Stato Unitario, eppure le ricadute erano del senso del frammento più che dell'unità, richiami neoborbonici, venetisti Come se non avessimo più la portata storica di quello che è stato il Risorgimento, molto oltre le piccole bugie dette dalle maestre delle elementari. Mazzini e Garibaldi sono personaggi di statura non soltanto europea».
Caporetto è il momento cruciale della Grande Guerra, combattuta dagli italiani interamente in quello che oggi chiamiamo Nordest. Alla prima guerra mondiale lo storico Mario Isnenghi ha dedicato gran parte degli studi. Veneziano, 79 anni, professore emerito di storia contemporanea, ha insegnato nelle università di Padova, Torino, Venezia. Autore di libri di successo, Il mito della Grande Guerra viene ristampato dal 1970.
Isnenghi ha senso ricordare la guerra un secolo dopo?
«Mi chiedo anch'io perché ci ho dedicato l'intera mia vita? Da studente laureando cercavo una bella tesi, importante, e siccome la mia generazione leggeva Gramsci e in particolare il suo pensiero sugli intellettuali, mi ero dedicato a questo tema, anche perché io questo volevo fare: l'insegnante, l'intellettuale. Poi ho scavato su che cosa volesse dire essere intellettuali dentro un Paese in guerra, nelle trincee. Mi sono legato al tema del conflitto, ai soldati, ai diari, alle memorie, ai romanzi. Al problema del popolo in grigioverde: perché aveva obbedito? Perché non aveva obbedito? Soprattutto, cosa era successo dopo Caporetto? Cadorna aveva accusato i soldati di aver gettato le armi e aveva accusato tutti, dai socialisti al Papa. Questo è stato uno dei percorsi che mi ha portato a cogliere la duplicità dei piani: i fatti accaduti e i fatti percepiti come veri. Chi sapeva in quel finire d'ottobre del 1917 cosa stava realmente avvenendo?».
Perché è rimasto, soprattutto nel Veneto, il fascino della Grande Guerra?
«Il mito è vero finché appare vero. La guerra continua a interessare perché è un grande racconto sociale di carattere collettivo che nelle Tre Venezie ha molte possibilità in più che vengono dallo spazio che ci circonda. E' tutto qui: i monti e i fiumi, le epigrafi, i parchi delle rimembranze. È vero che la circoscrizione obbligatoria arruolava soldati della Sardegna e della Calabria, però combattevano qui. Il racconto collettivo non ha nelle Venezie bisogno di trasferirsi, c'è già. Il nostro tempo aborre dall'epica, chiama tutto retorica e non nel senso alto dei linguisti. Ogni tempo ha la sua retorica, noi abbiamo quella delle vittime. Interessano soprattutto morti, vedove, orfani, mutilati. Non ci interessa chi l'ha voluta, ma chi l'ha fatta pur non avendola voluta. Penso che dal punto di vista storico non si debba essere chiusi anche a coloro che infliggono le ferite: se c'è un fucilato c'è un fucilatore».
Che studente era Mario Isnenghi?
«Famiglia piccoloborghese, padre impiegato, madre insegnante di inglese. Discreto studente in italiano, decisamente più interessato all'università. Un cattolico militante mancato, la Fuci veneziana di fine anni '50 aveva un grande assistente spirituale, don Germano Pattaro, teologo conciliare. Era una specie di lotta per la conquista delle nostre anime tra don Germano e Vladimiro Dorigo, grande speranza della Dc non solo veneziana, ma avversato per le sue idee da Fanfani. All'università entro nell'Unione goliardi, con Lino Iannuzzi che sarà un famoso giornalista e con Gianni De Michelis. Circolava una battuta su me e Gianni: Sono come culo e camicia e nessuno sa dire chi sia la camicia. Poi in una notte scelsi tra la politica e l'insegnamento, ero a Bologna per il parlamentino universitario, decisi di prendere l'ultimo treno per Chioggia e presentarmi in tempo per la lezione».
Lei si è dedicato anche a poemi eroicomici in veneziano, uno su un prete in quel Veneto del dopoguerra
«Non ancora laureato, avevo un incarico annuale a Feltre in un istituto tecnico; sono stato licenziato dopo due mesi perché le mie idee non piacevano al prete che dirigeva il settimanale diocesano. In quegli anni io mi ero avvicinato ai socialisti. Pensare che il preside era un intellettuale del Pci, ma mi ha difeso solo un senatore socialdemocratico e mi hanno attaccato i comunisti. Però ci ho guadagnato perché sono arrivato a insegnare a Venezia e perché ho incominciato a dedicarmi al Veneto e alla sua gente. Volevo conoscere cosa cantava il popolo ed è stato fondamentale l'incontro con Luisa Ronchini e con Gualtiero Bertelli che era stato mio allievo alle superiori. Mi sono avvicinato al gruppo del Canzoniere Popolare, insegnavo a Chioggia e cercavo le canzoni nei luoghi della memoria, nelle osterie, nei posti del lavoro. La ricerca del passato per cantare il tempo presente. E' anche così che è nata L'Odineide, satira di un prete della campagna veneta che porta le donne al voto, naturalmente per la Dc. Un poema eroicomico costruito su don Odino, io non conoscevo bene il dialetto, così Bertelli, che ha scritto le musica, ci metteva il naso per ripassarlo».
La memoria e il Veneto di oggi?
«Non possiamo indossare il discorso prêt-à-porter della caduta della memoria. Da una parte c'è un sovrappiù di memoria, basta vedere cosa è accaduto di recente rispetto all'anniversario del 1866 e al Plebiscito. Si è assistito a un tentativo di grande narrazione venetista in cui si sovrapponeva quello che non è mai avvenuto. L'invenzione della memoria adattata alla realtà. Nel 1968 ho curato l'edizione del romanzo di Ippolito Nievo che incomincia: Io nacqui veneziano ma morirò italiano. Nievo non vuole dire solo che Venezia diventa italiana, ma esprime la fiducia che l'uomo possa fare la storia. Nievo è uno dei Mille, muore trentenne perché si attarda in Sicilia per presentare nel modo più limpido la contabilità della Spedizione. In questo nostro tempo in cui fare lo storico e fare il politico appaiono peccaminosi, io continuo a leggere il grande scrittore imparando il contrario».
Edoardo Pittalis
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