L'INTERVISTA
Adesso cambieranno anche i telefilm polizieschi e quelli sul terrorismo:

Lunedì 25 Gennaio 2021
L'INTERVISTA
Adesso cambieranno anche i telefilm polizieschi e quelli sul terrorismo: nessuna irruzione per sfondare la porta, niente calci, proiettili, spallate. Basta Tattica, la si può anche fare paracadutare dentro un zaino, pesa otto chili, è una duplicatrice portatile di chiavi. Una sonda ricava i parametri nella serratura e trasmette i dati alla macchina che fa subito la chiave: si entra senza far danni, senza mettere in allarme chi è dentro e spesso spara.
Tattica tiene sotto controllo anche i vari impianti, dalla luce al gas, dal telefono al computer. L'hanno già sperimentata i servizi segreti italiani e l'Antiterrorismo, ne sono dotati carabinieri e polizia. E ne dispongono pure il National Crime Inglese, la Polizia tedesca, quella francese, la polizia a cavallo canadese, la polizia degli Stati Uniti d'America.
Nasce tutto in una fabbrica di Conegliano, la Keyline; qui hanno dovuto miniaturizzare un apparecchio che normalmente pesa 45 chili e ridurlo di quasi sei volte. «Questo vuol dire che la chiave non scomparirà mai e non soltanto nell'immaginario: la nostra sicurezza resta legata a un oggetto complesso che è la chiave che rimane il simbolo di un qualcosa che mette insieme antico e moderno, tecnologia e sicurezza elettronica. Il problema è sempre trovare la combinazione giusta», dice Massimo Bianchi, 62 anni, al vertice dell'azienda.
La Keyline fa macchine duplicatrici e chiavi di ogni genere: meccaniche, elettroniche, radiocomandi per auto. Produce tutto ciò che ha la funzione di aprire e di chiudere. Cinquanta milioni di chiavi all'anno. Il gruppo ha 200 dipendenti, 120 a Conegliano gli altri sparsi nelle filiali del mondo. Il fatturato è di 30 milioni di euro.
L'azienda è tra le più antiche del Veneto, ha anche creato un museo della chiave. La famiglia Bianchi è attiva da 250 anni, da quando a Cibiana di Cadore nel 1770 Matteo Bianchi fabbro specializzò la sua officina: le prime chiavi servirono per aprire e chiudere la chiesa del paese. Allora Cibiana era famosa per lavorare il ferro per conto dell'Arsenale di Venezia, il prodotto tipico erano le palle di cannone per le galee della Serenissima. Oggi Cibiana ha poche centinaia di abitanti, è nel cuore delle Dolomiti e le antiche case di sasso sono state affrescate con murales.
Quando la vecchia officina di chiavi è diventata un'industria moderna?
«Rappresento la settima generazione ed è già al lavoro l'ottava. È stato mio padre Camillo a fondare l'azienda industriale nel 1960: lui ha avuto l'intuizione di produrre le chiavi che funzionavano sui cilindri moderni, sul brevetto di Linus Yale l'inventore americano che ha cambiato il mondo con la chiave dentellata. Da allora è il metodo utilizzato da tutti i costruttori di serrature al mondo. L'altra intuizione di mio padre è stata quella di dedicarsi alle chiavi per auto. Non c'era il concetto di duplicazione, ha messo a punto la prima macchina duplicatrice, l'ha costruita assieme a un tecnico che lavorava alle Officine Galileo. Sono partiti dallo stesso concetto della macchina che veniva utilizzata dagli ottici per le lenti degli occhiali. Gli ottici usavano la mola, mio padre la fresa. La prima macchina duplicatrice è stata un successo tale che l'officina in breve è diventata una piccola fabbrica».
Lei quando è entrato in azienda?
«È stato nel 1977, siamo tre fratelli, ma sono l'unico che segue l'azienda dopo la morte di papà. Sapevo che quella sarebbe stata la mia vita, abbiamo sempre respirato acciaio e ottone. Nostro padre era molto impegnato nel lavoro, c'era un connubio molto stretto tra lavoro e vita di famiglia. L'ingresso per me è stato quasi obbligato: sia mio padre sia io siamo entrati perché i genitori erano molto malati e avevano bisogno di supporto. Lui aveva abbandonato gli studi per seguire il nonno, io perché lui stava male, è morto a 59 anni. Per me è stata una scelta che ho sempre approvato, tutto lo sviluppo successivo mi ha appagato».
Quale è stata la sua chiave per aprire l'azienda?
«Nel 1997 ho fatto un'operazione di fusione con un concorrente nordamericano che doveva svilupparsi ed era quotato alla Borsa di Toronto. Ero il secondo azionista del gruppo che era cresciuto troppo e aveva bisogno di cassa, così quando l'azionista di maggioranza ha venduto ho rilevato tutto. Poi sono uscito a condizioni vantaggiose e nel 2002 è iniziata l'avventura della Keyline. La mia caratteristica di gestione è quella di credere nel confronto: i vari passaggi prima con mio padre, poi con i soci americani e oggi nella Keyline, sono contrassegnati dalla necessità di confronto continuo. Nelle scelte mi ha supportato Maria Cristina Gribaudi: non ho mai creduto all'imprenditore solitario, è difficile decidere da soli il futuro di altre persone».
A proposito: la chiave ha un futuro?
«Questo è un mondo sempre in crescita, il recente sviluppo è tutto nell'elettronica, però la chiave meccanica continua a essere richiesta. La caratteristica di sopravvivere in tutti questi anni è quella di aggiornarsi continuamente, noi sviluppiamo sia il software operativo sia quello che permette la duplicazione, ogni chiave ha una scheda. Ma la chiave non morirà, la protezione classica di un privato è la porta blindata che ha bisogno di una chiave. Si entra e si esce dai posti usando una chiave, simbolicamente la chiave è il controllo, si dice avere le chiavi in mano, le chiavi del potere. Permette di escludere gli altri dalle nostre proprietà. Nel nostro museo c'è una statua di San Pietro che, chiavi in mano, fa entrare in Paradiso o respinge. Chi ha avuto le chiavi ha avuto il potere. Perfino così in alto! La combinazione, la sicurezza totale è la tecnologia e la ricerca non si ferma mai. Stiamo perfezionando un telecomando che protegga nel caso di figli minori: permette di bloccare la chiave dell'auto se viene sottratta, una sorta di parental control sul televisore».
Ha trovato anche la chiave giusta per la sua vita privata?
«Avevo avuto una prima moglie con due figli, poi ho incontrato Maria Cristina Gribaudi nel 1995, aveva già quattro figli. Ci siamo sposati tre anni dopo e abbiamo messo insieme una famiglia più larga, tutti i ragazzi hanno sempre voluto vivere insieme. Lei aveva una sua azienda di famiglia a Marano, faceva cucine industriali, dal 1998 abbiamo iniziato a collaborare e quattro figli già lavorano in azienda, due sono negli Usa nelle filiali americane, le due ragazze viaggiano nelle filiali europee. Gli altri due hanno la loro professione. Il sogno è che ogni generazione porti avanti il mestiere delle chiavi».
Fino a qualche tempo fa era conosciuto nell'ambente del triathlon, ha lasciato?
«No, oggi a 62 anni cerco di mantenermi in forma, mia moglie corre ancora la maratona e così capita di allenarci insieme. Trent'anni fa facevo triathlon con molta convinzione, ho avuto passione per questo sport che può essere definitivo estremo sotto il profilo degli allenamenti. Facevo le gare, i compagni di squadra mi chiamavano il cummenda perché ho sempre avuta questa immagina trascinata anche nel mondo dello sport. Nuoto, bicicletta, corsa: ero un bravo ciclista con la struttura massiccia, buono anche nella corsa veloce non per il fondo».
Edoardo Pittalis
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