L'ESTRATTO
Quello dell'istruzione è l'unico settore della società italiana

Giovedì 24 Ottobre 2019
L'ESTRATTO
Quello dell'istruzione è l'unico settore della società italiana in cui la produttività è in costante diminuzione da oltre mezzo secolo.
Che cos'è la produttività dell'istruzione?
Una definizione informale ma intuitivamente chiara è la seguente: la produttività è l'inverso del numero di anni necessari per raggiungere un determinato grado di organizzazione mentale. Supponiamo di assumere, come metro, il livello di organizzazione mentale conoscenze, padronanza del linguaggio, capacità logiche di un diplomato di terza media del 1962, l'ultimo anno prima dell'introduzione della scuola media unica. A lui erano occorsi otto anni di studio per raggiungere quel livello. Quanti ne occorrono oggi per raggiungere un livello comparabile?
(...) Se proprio devo buttare lì un numero, giusto per fissare le idee, direi che otto anni in più, rispetto agli otto anni necessari a conseguire la licenza media, è già una stima piuttosto benevola dell'abbassamento della produttività dell'istruzione intervenuto negli ultimi cinquant'anni, dalla fine degli anni Sessanta a oggi(...)
LE CONSEGUENZE
Fra le conseguenze meno importanti, una delle più citate è l'inflazione dei titoli di studio, ovvero il fatto che per fare certi mestieri e professioni siano oggi richiesti titoli di studio più elevati, quindi più anni di studio, con conseguenti maggiori spese per le famiglie. (...)
Meno studiate e denunciate sono però altre conseguenze. La prima è che la pressione a promuovere ha enormemente infiacchito la capacità dei giovani di affrontare compiti difficili, di concentrarsi, di memorizzare conoscenze. La seconda conseguenza è che sia la lunghezza degli studi (con i suoi costi), sia l'abbassamento degli standard, hanno finito per danneggiare i ceti popolari, riducendone anziché alzandone le chances di mobilità sociale (...)
Ma la conseguenza di gran lunga più importante dell'abbassamento dell'asticella è ancora un'altra. La scuola senza qualità ha generato un fenomeno nuovo, che è anche il secondo pilastro della società signorile di massa: la disoccupazione volontaria. Vediamo come, attraverso quale concatenazione di cause e di conseguenze, ci si arriva.
Il primo passo (1962) è la riforma dell'istruzione postelementare, un tempo suddivisa fra avviamento professionale e scuola media. Con l'istituzione della scuola media unica, imponendo a tutti un corso di studi non professionalizzante (qual era invece il vecchio avviamento), si instaura un primo importantissimo meccanismo: a quattordici anni, nessuno è in grado di fare un lavoro minimamente qualificato, ma in compenso chiunque può accedere a qualsiasi tipo di scuola secondaria: licei classici e scientifici, istituti tecnici e professionali, scuola magistrale e liceo artistico. Si affievolisce così l'idea che, per fare certi tipi di studio, sussistano dei prerequisiti (...)
Di fronte alle riforme del 1962 e del 1969, le istituzioni scolastiche non stanno certo a guardare. Investite da masse di nuovi studenti, bombardate dal donmilanismo dilagante (Lettera a una professoressa è del 1967), secondo cui la scuola dell'obbligo non può bocciare, investite dalla contestazione studentesca, che nelle università esige il diciotto politico (ma talora anche il ventisette o il trenta), le istituzioni si adattano. La maggior parte dei docenti, nelle scuole e ancor più nelle università, comincia ad abbassare gli standard, e continua a farlo per decenni. (...)
Di qui una conseguenza cruciale: poiché i percorsi di studio sono divenuti molto più facili, e i pezzi di carta fioccano, si estingue poco per volta sia l'idea che lo studio comporti impegno e sacrificio, sia l'idea che la scelta di una scuola o di un'università debba anche essere oculata, ovvero commisurata alle proprie forze e alla propria determinazione (...)
Qui però interviene il passaggio cruciale. Mentre le istituzioni educative si sono adattate, né le imprese né il mercato hanno fatto altrettanto. Anche oggi, e nonostante qualche inquietante eccezione, per svolgere determinati mestieri (in proprio o alle dipendenze), il fatto di averne la capacità ancora un po' conta. Per fare il magistrato, l'avvocato, il funzionario, il vigile, ci sono prerequisiti minimi, che i pubblici concorsi si premurano di verificare. Può così accadere che, con una laurea in giurisprudenza in tasca, nessuno dei concorrenti arrivi all'orale di un concorso da funzionario di settimo livello perché, ahimè, l'esito degli scritti non lascia scampo. (...)
IL SACRIFICIO
Né si tratta solo di capacità e conoscenze, ma anche di consapevolezza che un lavoro è appunto un lavoro, qualcosa che comporta di sacrificare una parte del proprio tempo e, in alcuni casi, richiede un'elevata dose di flessibilità negli orari. È noto, ad esempio, che in molte città italiane del Nord, orari, ferie e weekend liberi sono le prime richieste che gli aspiranti a un posto di lavoro formulano a chi li dovrebbe assumere. (...)
Ed eccoci al punto. L'abbassamento degli standard non si è limitato a ridurre la produttività delle istituzioni educative, a danneggiare i ceti popolari, a mettere in difficoltà i datori di lavoro, ma ha creato un gigantesco fenomeno sociale nuovo: la disoccupazione volontaria, specie giovanile.
Per disoccupazione volontaria si intende la condizione di chi non lavora non già perché non trova alcun lavoro, bensì perché non è disposto ad accettare i lavori che trova, o che potrebbe trovare. Per dirla con Elsa Fornero, già a suo tempo massacrata per averlo notato: i giovani italiani non trovano lavoro anche perché sono un po' troppo choosy.
IL FENOMENO
È subito il caso, a questo punto, di sgombrare il campo da un possibile equivoco. Il fenomeno della disoccupazione volontaria non è interessante nei casi estremi (o meglio banali in quanto estremi), come il laureato in architettura che non accetta di spaccarsi la schiena sotto il sole di agosto per raccogliere pomodori a 3 euro l'ora. O la commessa che rifiuta un lavoro in nero, o con un salario sensibilmente inferiore ai minimi contrattuali. O il giovane che non intende firmare un contratto-capestro nel settore del delivery, il vasto mondo in espansione delle consegne a domicilio.
No, la disoccupazione volontaria comincia a essere un fenomeno sociologicamente interessante quando un lavoro viene rifiutato non perché la proposta è palesemente irricevibile (come nei tre esempi precedenti), ma in quanto ritenuto non all'altezza delle proprie capacità, del proprio talento, o semplicemente degli standard di reddito e di prestigio che si ritengono adeguati ai propri studi (...)
Luca Ricolfi
© 2019 La nave di Teseo editore, Milano
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