Jean Dubuffet e la sua Venezia una mostra dedicata all'Art Brut

Martedì 20 Agosto 2019
L'ESPOSIZIONE
Si può dire che Jean Dubuffet (Le Havre 1901-Parigi 1985) ha avuto da sempre un rapporto contrastato e speciale con Venezia. Questa sua grande mostra ora allestita a Palazzo Franchetti, a cura di Sophie Webel e Frèderic Jaeger (aperta fino al 20 ottobre) è in realtà la terza in città visto che nel 1964, allora era stata una vera e propria disturbante scoperta, aveva esposto a Palazzo Grassi, nel 1984 era stato presente al Padiglione francese alla Biennale e, dopo la sua scomparsa, nel 1986, la Collezione Peggy Guggenheim aveva dedicato una rassegna ai suoi dipinti e ad una selezione delle opere della sua collezione di Art Brut, cioè arte grezza e antigraziosa.
Una originale ed innovativa definizione da lui coniata nei primi anni Quaranta per indicare i dipinti di personaggi fuori del sistema, in particolare bambini, dilettanti stravaganti e perfino malati di mente. Opere confluite nel tempo al Museo dell'Art Brut di Losanna costituito dallo stesso artista nella convinzione, secondo le sue parole, che pur essendo in apparenza rudimentali e grossolani, questi dipinti traducono con maggiore immediatezza i movimenti dello spirito e del pensiero. Jean Dubuffet è stato in realtà uno dei personaggi più originali della pittura europea nel dopoguerra, linguaggio espressivo al quale era giunto tardi, a metà degli anni Quaranta, dopo un incerto e titubante passato da commerciante. La mostra veneziana allinea circa sessanta opere realizzate dal 1959 al 1984 documentando alcuni dei cicli pittorici più significativi della ricerca di Jean Dubuffet, dalla Cèlebration du sol degli anni Cinquanta fino a giungere alla famosa serie titolata L'Hourlope, realizzata tra il 1962 e i 1974, in parte già esposta con grande scandalo per la critica alla storica mostra di Palazzo Grassi.
LO SPAZIO
Configurando tuttavia il nucleo centrale di tutta la ricerca formale ed espressiva di Dubuffet, caratterizzata da una sorta di affollata e convulsa organizzazione segnica dello spazio all'interno del quale il colore, anch'esso usato per segni, ha comunque una rilevanza sorprendente. Come sorprendenti sono le allusioni figurative, a ben vedere irriconoscibili, in un equilibrio formale sempre in bilico tra forme concluse e astrazione, una condizione che è tipica di tutta l'opera di Dubuffet e che ha provocato, pur nel grande successo di mercato, laceranti divisioni della critica d'arte internazionale. Ancora più convulsa appare l'organizzazione spaziale dei segni nel ciclo conclusivo Mires, eseguito negli ultimi anni della sua vita, cioè tra il 1983 e il 1984. Si tratta di segni che appaiono in questi dipinti dotati di una più accesa energia, gestuali potrebbero essere definiti, accostati a più marcate e larghe macchie di colori tra i quali prevalgono con evidenza il rosso e il nero.
IDEOLOGIE
Esprimendo una vitalità che è stata caratterizzante di tutta l'avventura esistenziale dello stesso Dubuffet, sempre animato dal desiderio di mettere in discussione ideologie e presunte certezze con un atteggiamento provocatorio e scorbutico, non solo sul piano formale dell'opera. Ma anche nelle riflessioni teoriche sull'arte del suo tempo e sul dibattito ancora attuale sulla cosiddetta morte dell'arte. Ma anche nelle riflessioni teoriche sull'arte del suo tempo e sul dibattito ancora attuale sulla cosiddetta morte dell'arte.Offrendo suggestioni che oggi appaiono con evidenza delle vere anticipazioni delle esperienze graffitiste di personaggi, ormai celebrati, quali Jean Michel Basquiat e Keith Haring.
Enzo Di Martino
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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