Il vento del nord che ha portato il nuovo nome allo stoccafisso

Mercoledì 20 Novembre 2019
Il vento del nord che ha portato il nuovo nome allo stoccafisso
Antonio Di Lorenzo

Perché a Vicenza, unico caso al mondo, si chiama baccalà un piatto a base di stoccafisso? Risposta: il problema non è il nome, ma il pesce. Che è differente in quanto arriva da una strada diversa. Il baccalà giungeva di solito con le navi dal mare, mentre nel Veneto è arrivato via terra dalla Norvegia lo stoccafisso, che è sempre merluzzo ma essiccato al vento anziché messo sotto sale. Lo stoccafisso fu scoperto da Pietro Querini in culo mundi per usare le sue parole, alle norvegesi isole Lofoten il 6 gennaio 1432, dopo il naufragio da cui si salvò con dodici marinai. E si è continuato a usare quel pesce e l'altro termine, che ha peraltro un'origine nordica.
Baccalà deriva da Kabeliau, nome che in tedesco indica il merluzzo: per rotacismo le sillabe si sono invertite. Comunque, per celebrare questa differenza sostanziale di percorso e prodotto, la Venerabile confraternita vicentina del baccalà si batte per elevare la Via Querinissima, che attraversa l'Europa dall'estremo Nord a Venezia, allo status di altre strade che hanno segnato la Storia, come il cammino di Santiago o la via Francigena. Un traguardo importante, comunque, è stato già raggiunto: il baccalà alla vicentina è uno dei cinque piatti italiani targati Europa, più esattamente battezzati dall'Eurofir, ossia l'European food information resource network, finanziato dalla Commissione europea, che l'ha riconosciuto come uno dei piatti tradizionali rappresentativi dell'Italia a tavola, assieme ai cannoli alla ricotta siciliani, del castagnaccio toscano, della pizza margherita napoletana e del brasato al barolo piemontese.
Secondo interrogativo. Per quale motivo, sempre unici al mondo, i vicentini cucinano il baccalà nel latte? La risposta la fornisce Otello Fabris, storico della cucina, nel suo libro I misteri del ragno: perché il latte è l'unico alimento, oltre al pesce, che i pescatori norvegesi potevano avere a disposizione dalla vacca di casa. Ha ragione perché vale sempre la regola del rasoio di Occam: la spiegazione più semplice è quella più vera. La ricetta vicentina, quindi, che ha aggiunto l'olio alla preparazione, è quella che più si avvicina al sapore originale. Latte, olio, farina, cipolla e sarde (o acciuga): sono i cinque ingredienti che impreziosiscono la ricetta, che peraltro ne richiede anche un sesto, cioè la pazienza, perché il pesce così conciato deve sobbollire a lungo e lentamente. Deve pipare, si dice in dialetto. Non tutti la pensano così. Gianfranco Vissani, intervistato molti anni fa da chi scrive, sosteneva (e sostiene ancora) che è sufficiente una cottura più breve, in linea con i gusti mutati del pubblico. Apriti cielo! Ne uscì una polemica infuocata, è proprio il caso di dirlo, e il celebre cuoco rimase solo a difendere la sua idea contro tutti i tradizionalisti locali.
Guido Piovene aveva una bella definizione del baccalà alla vicentina: È l'unico piatto sosteneva che può fare concorrenza alla cucina francese. Forse era un po' di parte, ma questa ricetta, ricca di fascino nordico e di spezie orientali, è indicativa proprio della definizione che Piovene forniva di Vicenza: Troppo vicina alle montagne per non sentire i venti freddi del Nord, troppo vicina al mare, per non sentire l'influsso dell'Oriente.
Come ricorda sempre Arrigo Cipriani, il merito di aver tramandato la preparazione del baccalà è sicuramente delle donne: sono loro, per secoli delegate in famiglia alla cucina, che hanno fatto giungere fino a noi le ricette tradizionali, dalla pasta e fagioli ai bigoli con l'arna. Anzi, probabilmente sono state loro ad averle inventate, come pure il baccalà.
Il baccalà ci mette almeno un secolo e mezzo per affermarsi sulle tavole: del resto, i veneziani ricchi non mangiavano pesce bensì carne. E il baccalà trova spazio proprio a Vicenza, provincia ad alto tasso di povertà, perché risolve tre problemi: semplice conservazione, costo basso, proteine che altrimenti sarebbero state impossibili da trovare.
La fortuna popolare è inversamente proporzionale a quella dei gastronomi: lo stesso Pellegrino Artusi bistratta il merluzzo, ne parla malissimo finché non scopre il baccalà montebianco, quello che noi chiamiamo mantecato, e si trasfigura: Il baccalà così trattato perde la sua natura triviale e diventa gentile, da poter figurare in una tavola signorile.
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