Il Veneto e le banche, crack da palcoscenico

Sabato 7 Dicembre 2019
L'INTERVISTA
Il fallimento di Veneto Banca e della Banca Popolare di Vicenza ha visto sgretolarsi la narrazione giocata sul successo dei sghei per quel Veneto che era considerato la locomotiva d'Italia. Dalla dissoluzione dei più importanti istituti di credito del Nordest parte Una banca popolare, la produzione del Teatro Stabile del Veneto (in collaborazione con Jolefilm) affidata alla penna di Romolo Bugaro e diretta dal regista cinematografico Alessandro Rossetto. Lo spettacolo debutta in prima nazionale al Teatro Goldoni di Venezia dal 12 al 15 dicembre. A Romolo Bugaro viene spontaneo chiedere se ci sia una inevitabile ironia nel titolo di questo lavoro. «È stato uno di quei casi in cui non si deve fare nessuna fatica, perché il senso del lavoro è incorporato nella realtà. Le banche che sono crollate si chiamavano Popolari e chi ne ha fatto le spese è stato il popolo. Non serviva cercare un titolo migliore».
Questo lavoro indaga le responsabilità?
«Ci sono processi in corso e verranno stabilite le responsabilità penali e civili. Io ho cercato di fare un carotaggio in questo disastro, di andare dentro l'ombra di questa vicenda, nel buio (o nell'abisso) che ha avvolto tutti coloro che hanno fatto affari negli istituti fino all'ultimo e chi ha fatto mancare i controlli».
Chi sono i protagonisti?
«Lo spettacolo si concentra soprattutto sui cortigiani, sul sistema di potere che stava vicino e intorno a queste banche. Tutte persone che hanno beneficiato di questo business e non certo il popolo dei piccoli azionisti».
Il crack è stato anche il fallimento di una Weltanschauung e di un modello sociale?
«Certo, queste banche avevano il proprio perno nei territori e chiedevano fiducia incondizionata. Le banche erano fatte di persone che la gente riconosceva, di persone vicine che godevano di relazioni familiari. Ecco che questo reticolo di rapporti, che era in seno ai territori, ha fatto sì che la frode non sia arrivata da lontano, da soggetti sconosciuti, ma da banche nel cuore del Veneto. Dunque è il Veneto che ha derubato e depredato se stesso».
Una rabbia più grande?
«Un conto è esser rapinato da uno sconosciuto, ma è diverso se è una persona che conosci. Questo ha portato all'esplosione di una rabbia enorme. Chi perde soldi è sempre arrabbiato, ma è peggio se te li fa perdere qualcuno che conosci da sempre».
Dunque banche sono finite come le casse peote?
«È così, di fatto. E quando gli interessi in ballo sono addirittura colossali le normative sono recessive. Parliamo di banche con patrimoni miliardari e con migliaia di dipendenti, dunque di interessi rispetto a quali la vigilanza si è di fatto arresa per molto tempo. Le casse peote sono nate dall'ingenuità popolare e poi son state vietate, qui il gioco era molto più pesante».
È stata una truffa consapevole?
«Alla fine è facile prendere 4 o 5 banchieri o dirigenti e dire che è colpa loro, ma non è la verità. In realtà il Veneto ha visto una decapitazione per via giudiziaria della classe dirigente negli ultimi 12/15 anni e questo pone un interrogativo che non riguarda solo politici e banchieri. Pensiamo tutti che alcuni meccanismi non ci riguardino, ma prima o poi li paghiamo».
Non è uno spettacolo autoassolutorio?
«Decisamente no. Si è scelto di non raccontare le vittime, ma di riflettere sulla figura dei carnefici. È uno spettacolo in cui parlano i cattivi e credo sia una riflessione utile per evitare che si ripeta questo fenomeno. Portiamo in scena il male».
Giambattista Marchetto
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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