«Il Veneto del latte rischia di sparire»

Domenica 21 Aprile 2019
L'INTERVISTA
«Se resteremo isolati, il Veneto del latte non ci sarà più perché le multinazionali diventano sempre più forti. Sul mercato aperto ci vogliono le grandi quantità, poi devi innovare costantemente e devi prevenire. Per esempio: mio padre e il casaro del Sappadino hanno inventato il formaggio Piave e sono corsi a brevettarlo. Era il 1974 e tanti si misero a ridere: Il brevetto per un formaggio?. Per fortuna sono stati ostinati, quel brevetto ci ha consentito non solo di difenderci in Italia, ma è anche di farne uno dei pochi prodotti italiani in grado di difendersi negli Stati Uniti».
Antonio Bortoli, 71 anni, direttore di Lattebusche, sa tutto sul latte e sul formaggio che sono una ricchezza del Veneto: muovono un fatturato importante che guarda all'esportazione e punta sui mercati emergenti, la Cina in particolare. La cooperativa bellunese Lattebusche ha il primato a Nordest ed è tra le prime aziende in Italia, alle spalle delle multinazionali. C'è da 60 anni, quando centinaia di soci riuniti a Busche, ai piedi delle grandi montagne, ruppero col passato. Oggi 300 dipendenti, 50 agenti e 50 mezzi che distribuiscono una quarantina di prodotti in novemila punti vendita in tutta Italia. Con un fatturato di 108 milioni di euro esporta in Usa e Canada e Russia. Si lavorano 4000 quintali di latte al giorno in 6 stabilimenti: a Busche; a Chioggia per il gelato; a Sandrigo e San Pietro in Gu per il Grana Padano; a Camazzole per l'Asiago; a Pedola per i prodotti biologici.
Una delle sue forze è che dalla fondazione ha avuto due soli direttori generali, padre e figlio: Francesco Giuseppe e poi Antonio Bortoli, entrambi di Bressanvido nel Vicentino.
Quando è nata la Lattebusche?
«Per iniziativa di 36 soci che hanno fondato la cooperativa che ha incominciato a produrre nel 1958 tra grandi difficoltà, perché questa è una terra straordinaria, ma ostile a lavorarci ed è terra di troppi campanili. Dei fondatori è rimasto Giovanni Zallot. L'avvio fu facilitato da un cliente importante, l'Auricchio. Per qualche anno si faceva soltanto un formaggio, negli anni successivi sono stati introdotti il latte fresco, lo yogurt, la panna e il burro, il gelato».
Come la storia della cooperativa s'incrocia con quella della famiglia Bortoli?
«Mio padre Francesco Giuseppe, nato nel 1902, veniva da una famiglia di agricoltori vicentini e lavorava nello stabilimento della Polenghi a Bressanive. Divenne il responsabile e io sono nato lì, proprio all'interno dell'azienda; e sono cresciuto da figlio unico in un altro stabilimento, quello dei conti Pastega a Castelcucco. Era un uomo dal carattere forte, gridava tanto che si sentiva al di là del Piave. Sono venuto per la prima volta da queste parti nel 1960, su una Fiat Giardinetta grigia, di quelle con le fasce di legno, davanti alla latteria la neve accatastata era più alta della macchina. Dovevamo prendere del formaggio. Siamo capitati nel momento in cui il casaro, un vicentino, lasciava la cooperativa indicando mio padre come sostituto. E Francesco Giuseppe casualmente quel giorno capitò da quelle parti. Mi lasciò in macchina, col freddo che c'era. E adesso chi avverte tua madre che verremo qui per un periodo di prova?. Ci siamo rimasti».
Un'infanzia tra latte e formaggi la sua?
«Della prima esperienza nel Trevigiano ricordo solo il girovagare per la latteria senza capire niente. A Busche, già dalle medie, mio padre d'estate mi faceva raschiare il formaggio e alle superiori caricavo i camion e conoscevo vita, morte e miracoli dell'azienda e di tutti i dipendenti. Poi ho lavorato nel ricevimento, c'erano oltre mille soci e si registrava a mano il latte che portavano due volte al giorno. Avevo un amico che aveva sempre La Gazzetta dello Sport sottobraccio e lo chiamavano pane e gazzetta, io venivo chiamato pane e latteria. Amavo lo sport, non c'erano impianti sportivi e mi ero inventato le Olimpiadi del mio paese, per il peso usavamo una boccia di quelle pesanti. Ho giocato per vent'anni a calcio in varie categorie, sono stato campione regionale di pallacanestro agli studenteschi con l'istituto Colotti di Feltre, e anche campione provinciale di lancio del disco».
L'ingresso in azienda?
«A Ca' Foscari ho fatto Economia e mi sono laureato col mitico professor Giorgio Brunetti. A metà percorso, però, me la sono presa un po' comoda e mio padre è sceso a Venezia, mi ha tagliato i viveri e mi ha dato sei mesi di tempo per decidere. Sono entrato in azienda dopo la laurea, con una selezione ufficiale. Certo ha aiutato la continuità con mio padre e anche il fatto che conoscevo alla perfezione lo stabilimento. Il periodo di prova è stato lungo, solo nel 1983 ho avuto le deleghe importanti».
Quando sono arrivate le prime grosse difficoltà?
«La grande crisi del settore nel 1979 ha costretto tutti a una riflessione e imposto la necessità di mettersi assieme. L'assessore regionale venne da me: Tu bocia (e effettivamente lo ero) metti giù un piano e ci ritroviamo tra quindici giorni. La riunione con i caseifici del Bellunese fu un fiasco, frantumati si andava incontro alla rovina e molte strutture chiusero per sempre. L'assessore disse che il progetto era buono e valeva la pena applicarlo nella nostra azienda. È allora che è nata Lattebusche ed è incominciata una serie di innovazioni: dal nome al marchio. Bisognava cambiare, all'inizio ho fatto il giro di tutte le latterie prendendo molte parole, ti rispondevano: Piuttosto che portare il latte a Busche, lo butto nel Piave. Non ho mai capito gente che si divide in tutto, in una provincia povera e allora molto di più. Non potevo restare a guardare quelli che avevano rifiutato l'innovazione e cadevano e quelli che non capivano che la provincia da sola non poteva assorbire tutto il latte prodotto. Bisognava uscire dai confini e ci siamo comprati una piccola azienda di Montebelluna che aveva sei automezzi».
Una storia di fusioni in una regione che le guardava con diffidenza?
«Sono state determinanti per la crescita dell'azienda: ora sono 23! Per non restare bloccati, siamo andati a Chioggia dove allora il direttore era Carlo Alberto Tesserin che è stato anche assessore regionale e ora è il Provveditore di San Marco. Loro facevano latte alimentare e gelato, ci hanno consentito di espanderci nel litorale e soprattutto di entrare nel Padovano dove erano già fornitori ufficiali della catena di supermercati Alì. È stato il grande inizio».
Quali sono i problemi del settore del latte?
«Il mondo agricolo e della trasformazione del latte vive momenti alti e bassi che dipendono in maniera importante dalla globalizzazione. Non c'è più il problema dei trasporti, il commercio è cresciuto a dismisura, oggi l'Europa intera è influenzata dalla capacità che ha di esportare. Ci sono mercati emergenti, la Cina in particolare. In questa logica è estremamente importante il ruolo dei paesi produttori tra i quali c'è l'Italia. Nel Veneto molte storiche aziende sono sparite agli inizi degli Anni '90, altre sono cresciute, come le Latterie Vicentine, Soligo Oggi la situazione del settore è pesante, veniamo da un anno negativo dovuto all'eccedenza del latte. La nostra remunerazione che pure supera ampiamente la media del Veneto, è insufficiente soprattutto per le stalle di montagna. La protesta in Sardegna e in Sicilia per il latte di pecora non può essere trascurata: sono i prodotti trasformati quelli che costano. La minaccia di dazi fatta da Trump, adesso, preoccupa molto».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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