Il Novecento e la parabola dei socialisti

Mercoledì 22 Maggio 2019
«Dite la verità, vi manchiamo, vero?» domanda un sorridente Gianni De Michelis in un fotomontaggio che Federico Palmaroli, meglio noto come Osho, ha voluto dedicare al grande uomo politico appena scomparso. E sono tanti in effetti i segni di una nostalgia diffusa nei confronti della cosiddetta Prima repubblica; benché sia passato più di un quarto di secolo dalla sua scomparsa, il ricordo affiora di tanto in tanto anche in coloro che sono nati dopo, i millennials come si dice. Come sempre accade, la nostalgia sfuma e allontana i tratti corruschi di un periodo mentre ne esalta quelli dolci, soprattutto se il successivo, la cosiddetta seconda Repubblica, ha deluso quasi tutte le aspettative.
Uno dei protagonisti di quegli anni, a cui gli italiani guardano con qualche rimpianto, è la classe politica: nonostante sia stata proprio un'avversione cieca e incontrollata dei cittadini contro i politici a cagionarne il crollo. Senza nulla togliere agli uni e agli altri, e con le dovute eccezioni, non v'è infatti alcun dubbio che il livello medio dei politici di allora fu più elevato di quello del cosiddetto ventennio berlusconiano, per non dire del periodo attuale, quello post 2013. Questione di competenza? Non diciamo banalità. Come scriveva Benedetto Croce, la competenza del politico consiste nella capacità di esercitare l'arte politica; infatti i competenti al potere (leggi: tecnici) negli ultimi decenni si sono mostrati tanto poco all'altezza, da contribuire a far nascere ancor più il rimpianto verso quelli che, venticinque anni fa, venivano chiamati spregiativamente i «partitocrati».
Perché la classe politica di allora possedeva qualità che la successiva non è stata, se non con qualche eccezione, in grado di replicare? Una delle ragioni va secondo noi cercata in un concetto: «cultura politica». La classe politica era infatti immersa in una ricca cultura politica, il cui bacino negli anni successivi si è quasi totalmente prosciugato. Che cosa vuol dire «cultura politica»? Con questo termine si intende tutti quei riti, simboli, linguaggi, quei codici sia verbali che visivi, che rendevano un partito non solamente una macchina politica, ma anche un mondo, un luogo in cui incontrarsi: una forma di radicamento sociale.
Le principali culture politiche erano quelle dei partiti maggiori, detti «di massa»: democristiani, comunisti e socialisti. Ma anche le piccole formazioni, come repubblicani e liberali, possedevano le proprie, che essi coltivavano e si tenevano ben strette. Furono i partiti a inventare queste culture? Sì e no. Si, perché i partiti rimisero in piedi non solo la democrazia italiana ma lo stesso Stato, che con l'8 settembre 1943 si era spezzato in due e che essi ricostruirono, sotto forma di «Stato dei partiti». No, perché le loro radici, quella della Dc, dei socialisti e comunisti, ma anche di liberali e repubblicani, affondavano ben indietro nel tempo, nell'Italia post-risorgimentale dei primi decenni dell'Unità, e per certi versi persino nel Risorgimento. Le loro culture politiche sapevano di appartenere a una storia e una tradizione di cui questi partiti si sentivano gli eredi.
La famosa frase di Palermo Togliatti, «veniamo da lontano e andiamo lontano», non valeva solo per il Pci, che dopo il 1945 si era innervato sulla precedente cultura politica socialista, rendendo infatti marginale il Psi. Queste parole avrebbero potuto essere pronunciate anche da un De Gasperi e da un Moro, da un Einaudi e da un Saragat, da un Nenni e da Craxi. Ecco, tutto questo oggi è finito. Perché? Il grande politologo americano Robert Putnam scrive che, negli Stati Uniti dagli anni Settanta in poi, si è affermato il bowling alone, cioè la perdita dei legami sociali e familiari. Un discorso che, con le dovute differenze, vale anche per l'Italia. Il diffondersi dell'individualismo e l'indebolirsi dei legami sociali influirono sui partiti, che smisero di essere luoghi in cui incontrarsi e dibattere, e divennero spazi di mera gestione del potere, locale o nazionale. Sempre meno in grado di produrre cultura politica, essi a loro volta finirono per allontanare i cittadini, soprattutto quelli giovani.
Infatti oggi nessuno dei principali attori di questa fase della vita politica si innesta veramente sul tessuto di tradizioni politiche nazionali: ma senza tradizione, niente cultura. Probabilmente non è possibile farci nulla (le tradizioni non nascono a comando) ma possiamo almeno cercare di restituire, magari proprio ai millennials, il tratto di quegli anni e far capire come la politica nella prima Repubblica fosse davvero, come si diceva allora, una scelta di vita. Ottima è perciò stata l'idea del Museo del 900 di Mestre (M9) di organizzare un ciclo di conferenze sulle culture politiche della Italia repubblicana. Magari dal sentimento di nostalgia potrebbe nascere quello di ricostruire.
Marco Gervasoni
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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