IL LIBRO
«Il primo campo con le porte in legno l'ho visto solo a dodici

Mercoledì 22 Maggio 2019
IL LIBRO
«Il primo campo con le porte in legno l'ho visto solo a dodici anni nel grande cortile dei Salesiani di via Copernico, a Milano, dove giocava anche Berlusconi, che era un interno e di anni ne aveva diciannove. Era il classico Venezia: alto come un soldo di cacio, pretendeva di fare il centravanti e non passava mai la palla. Anche in formato ridotto e per il momento inoffensivo era già tutto il Berlusconi che avremmo conosciuto in seguito»: Massimo Fini (giornalista e scrittore) lo racconta in Storia reazionaria del calcio (Marsilio, 263 pagine, 17 euro), scritto a quattro mani con Giancarlo Padovan, giornalista sportivo ma anche scrittore, docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e perfino allenatore con il patentino Uefa B, con postfazione di Antonio Padellaro.
Compagni di viaggio e complici, Massimo e Giancarlo, anche se non sempre allineati, anzi. Ad esempio quando si parla di allenatori. Per Fini contano meno di quanto loro stessi credano. Di Helenio Herrera, ad esempio, dice: «Di calcio non capiva praticamente nulla, soprattutto a partita in corso». Ne salva pochi (fra questi Allegri: «Usa la testa, sa adattare gli schemi ai giocatori e non viceversa»), il suo idolo è Guus Hiddink e detesta quelli che amano il bel gioco: «Il bel gioco non a nulla a che fare col calcio».
DOPPIA VISIONE
Padovan ammirava il mago (e anche, va detto, la sua bella moglie, donna Flora «e i suoi seni generosi e intatti anche a sessantatré anni») e soprattutto Arrigo Sacchi perchè ha rivoluzionato il calcio e Mourinho (Nessuno come lui sa infondere motivazioni assolute ai suoi giocatori). Invece Fini ha nostalgia del vecchio, caro catenaccio all'italiana.
Fini, che detesta luoghi comuni, pregiudizi, frasi fatte, ovvietà e il politicamente corretto, spiazza i benpensanti da anti in tutto, persino anti italiano: «Non ho mai tifato per l'Italia anzi, ho sempre tifato contro, soprattutto quando gioca con le piccole. Il mio trionfo fu la sconfitta con la Corea del Nord (1 a 0) nel Campionato del Mondo del 1966».
E qui non risparmia nessuno: né il fastidioso Caressa, telecronista di Sky Sport, con le sue urla, né le donne, che negli stadi non dovrebbero neppure entrare e alle quali in casa è vietato avvicinarsi alla stanza dove si guarda la partita: Anche perchè oltre a non capire nulla portano anche sfiga.
Fini detesta la banalità, l'ipocrisia: le curve una volta non esistevano, le hanno inventate lorsignori e allora non si capisce perché, se si costringono dietro le porte tutti i ragazzotti che prima si diluivano anche in altre parti dello stadio, poi ci si scandalizza se questi ad ogni buona o cattiva occasione fanno casino. Eppure ammette di essere vittima, come e peggio di chiunque altro, di folli riti e assurde scaramanzie e di una passione per il Toro e il calcio talmente forte da essere alla fine delusa in maniera così cocente da indurlo a decretare, unilateralmente, il divorzio da entrambi: «E forse questo libro mi è servito anche per elaborare questo amarissimo lutto».
IL MILANISTA
Il fastidio verso Berlusconi affiora a più riprese: «Se in quel maledetto giorno di novembre a Belgrado non fosse scesa la nebbia, in un luogo dove la nebbia la vedono se va bene una volta ogni dieci anni, a venti minuti dalla fine della partita di ritorno con la Stella Rossa con i rossoneri ad un passo dalla clamorosa eliminazione, non ci sarebbe mai stato il grande Milan di Berlusconi e anche il destino dell'uomo di Arcore e la stessa storia d'Italia avrebbero avuto un corso diverso». La passione sfrenata per la grande Olanda di Cruijff che non ha mai vinto nulla, anche perché perseguitata dalla sfortuna quando avrebbe potuto farlo - secondo Fini è la prova che Dio non esiste (e del resto, Baudelaire scrisse: L'unica scusante di Dio è di non esistere) -, ma è rimasta comunque nella storia a conferma che non è sempre il palmares a fare la grandezza di una squadra.
CALCIOPOLI
Ma nemmeno Padovan, che pure percorre di più i sentieri della tecnica e del regolamento, le manda a dire. Ad esempio ricordando gli anni in cui, da direttore di Tuttosport, ai tempi di Calciopoli, difendeva la Juventus e Michele Serra sul suo giornale «innescò con me una polemica da tifoso e non da giornalista. Nella querelle, non richiesto, si inserì Gigi Garanzini, il quale disse che la contrapposizone fra me e Serra era come se si fosse accostato Mino Reitano a Placido Domingo. Ma Garanzini aveva il dente avvelenato da vent'anni quando, per sostituire Silvio Garioni al Corriere fui scelto io e non lui». E ce n'è anche per il mitico Candido Cannavò, storico direttore della Gazzetta: «il cui potere veniva dissimulato da un'apparente bonomia, ma che non era per niente buono». Secondo Padovan era Cannavò a sponsorizzare Garanzini con il quale giocava regolarmente a tennis - contro di lui, considerato minus quam merdam dai veterani e dai presunti ottimati del giornalismo italiano, spalancando così ai lettori qualche stanza di quelle redazioni che alzano barricate contro i colleghi e del mestiere di giornalista: Quello del critico calcistico è un impegno acrobatico, perché il calcio non regala certezze.
DIVISI DAL VAR
Interessanti e coinvolgenti deviazioni, quelle di Padovan, da una strada maestra che è quella del racconto del calcio e dei suoi uomini dal punto di vista della tecnica, della conoscenza, dei regolamenti, delle novità, dell'evoluzione.
A lui, ad esempio, il Var piace, lo approva (Vuol dire amare la giustizia e la verità non essere calvinisti), con qualche distinguo, certo (Snatura la partita, ma è il male minore). Fini invece lo trova idiota, soprattutto in Italia, dove abbiamo i migliori arbitri. Perché il Var distrugge il ritmo e la poesia del calcio.
Ma nelle righe di Padovan c'è anche la passione giovanile per il Carmenta, la squadra del suo paesino, Carmignano del Brenta, e quella per il Lanerossi Vicenza, che ha amato per amore del padre e dello zio (Più che alla gioia della partita volevo partecipare alla loro sofferenza, in quei lunghi pomeriggi che altro non erano che un percorso nel mistero doloroso del calcio) e che ha smesso di amare quando il papà se n'è andato.
Insomma, leggetelo questo libro, curioso, appassionante, divertente, pieno di cose, divisivo, come è sempre stato il calcio. E, da perfetti tifosi, vi schiererete per l'uno o per l'altro. E vi riconoscerete perfettamente in entrambi.
Claudio De Min
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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