Il Crusoe che parlava veneto

Mercoledì 15 Maggio 2019
Il Crusoe che parlava veneto
LA STORIA
Compie trecento anni uno dei libri più famosi della storia della letteratura: il Robinson Crusoe, di Daniel Defoe, uscito per la prima volta il 25 aprile 1719. Il titolo completo per la verità sarebbe: La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe. Al tempo si raccontavano numerose storie di persone abbandonate su isole deserte, naturalmente non ne poteva mancare una riguardante la Serenissima. Bisogna fare un salto all'indietro di un paio di secoli, al 1554, quando viene pubblicato a Venezia un libro moraleggiante di insegnamenti religiosi scritto da monsignor Sabba da Castiglione, un letterato di nobile famiglia milanese, che appartiene all'ordine dei cavalieri di Gerusalemme.
IL GHIOTTO GENTILHOMO
Il ricordo numero 110 parla di un gentiluomo veneziano che non molti anni prima era stato confinato in un'isola deserta della Dalmazia. Ai nostri giorni solo 66 delle 1185 isole dalmate sono abitate, anche se ai tempi i numeri fossero stati un po' diversi, un'isola deserta non doveva essere troppo difficile da trovare. Le cronache non tramandano il nome del patrizio, per cui non sappiamo a quale casata appartenesse. Castiglione riferisce che era «dedito al crapulare e al bere» e per una qualche colpa, nemmeno questa precisata, era stato lasciato «in una isola deserta, sterile, ben fornita d'ogni disagio, di sorte che ragionevolmente si poteva appellare il Purgatorio delli ghiotti e delli golosi, di maniera che, dimorando quivi il povero gentiluomo molto di mala voglia e scontento, per non avere il modo, come già aveva in Vinegia, di soddisfare alla gola e al ventre delli quali era molto divoto». Chissà, forse s'industriava a pescare, le acque dell'Adriatico orientale sono generose, oppure cacciava qualche capra selvatica, animali sempre presenti nelle isole dalmate, anche se spesso non si capisce come ci siano arrivati. Comunque il racconto del monsignore continua affermando che una galea veneziana di ritorno dal Levante si ferma nell'isola e poiché il comandante era molto amico del confinato, va a visitarlo.
IL CONFINATO
Un'opera successiva il Trattato della pazienza, del 1704, aggiunge che tale comandante è membro della famiglia Diedo. Il confinato si lamenta e si duole «fino alle stelle» di essere stato relegato in un luogo tanto inospitale, «dove l'aere era pestifero». Afferma che «la carne era male, il pane peggio e il vino pessimo», l'unica cosa su cui non recrimina è l'acqua (ci sarà stata una fonte?). Da queste parole potrebbe sembrare che l'isola non fosse del tutto deserta e che ci fosse qualcuno in grado di cuocere il pane. In ogni caso, anche un'isoletta con qualche abitante non poteva che sembrare selvaggia a un nobiluomo abituato alle raffinatezze di Venezia. Infatti il confinato sostiene che per lui sarebbe stato meglio se «la Signoria gli avesse fatto mozzare la testa anziché mandarlo a morire di fame in quello scoglio arido e ignudo». Il comandante della galea, «uomo grave, costumato, e mezzo filosofo, il qual sapeva molto bene le condizioni e qualità dell'afflitto confinato» moraleggia e gli dà una risposta in linea con quello che voleva essere l'insegnamento religioso: «La carne di bue e di capra diventeranno capponi e fagiani», il vino di prugnoli selvatici sembrerà malvasia, il pan nero e duro di orzo e di segala «diventerà fiore di farina o meglio del padovano» (che evidentemente doveva essere buon pane, ai tempi), ma tutto questo soltanto a un patto, ovvero che «voi siate invitato da due messi della natura che sono la fame e la sete». Al mondo non ci sono «miglior cuoco né il miglior bottigliero né il miglior panattiero che la fame e la sete, volgarmente setta la salsa di San Bernardo».
Non sappiamo quale sia stata la reazione del confinato di fronte alla menata moralisteggiante, anche perché il capitano, in pieno delirio controriformista, aggiunge: «Questi due messi non sono dalla natura mandati se non alli sobri, parchi e continenti, e non alli disordinati e dissoluti, li quali sempre prevengono a questi due nunzi naturali, e per questo non gustano né il mangiare né il bere».
IL MONSIGNORE
Il racconto di monsignor Sabba da Castiglione si conclude qua, mentre la versione settecentesca aggiunge: «E con tal dire lasciò il malcontento goloso nel suo confino». Oggi ci verrebbe da pensare: «Bell'amico!» ma evidentemente all'epoca gli insegnamenti morali avevano il loro perché. Il fatto che qualche nobiluomo veneziano finisse confinato in un'isola della Dalmazia non era del tutto irrealistico, come spiega Tiziana Plebani nel suo libro sulla storia dei sentimenti: se il giovane rampollo di una famiglia patrizia si incaponiva a voler sposare la donna amata anziché quella che era stata scelta per lui, il padre si appellava all'autorità pubblica. Gli Inquisitori di stato, per ridurre il giovane alla ragionevolezza, adottavano una serie di rimedi che andavano, in crescendo, dall'ammonimento, agli arresti domiciliari, alla relegazione in qualche monastero della laguna, oppure in una fortezza, prima fra tutte Palma, e infine i più cocciuti venivano mandati in qualche luogo disperso della Dalmazia o del Levante.
LA VERSIONE INGLESE
Il Robinson veneziano del racconto cinquecentesco potrebbe ricondursi a uno di questi casi. È piuttosto improbabile che Daniel Defoe conoscesse questa storia, anche perché di relegati inglesi su un'isola deserta ne aveva quanti ne voleva. È opinione degli storici della letteratura che per il suo Robinson Crusoe si sia ispirato al naufrago scozzese Alexander Selkirk, in servizio sulla nave corsara Cinque Ports, abbandonato sull'isola di Juan Fernandez, al largo delle coste cilene, a causa di una lite con il capitano. Dopo quattro anni Selkirk viene salvato dal corsaro britannico Woodes Rogers durante una spedizione attorno al mondo. Rogers, che diventerà il primo governatore delle Bahamas, nel 1712 pubblica un fortunato libro nel quale racconta le proprie imprese e dedica diverse pagine all'avventura di Selkirk. Il romanzo di Defoe riscuote grande successo: sei ristampe dal 1719 al 1726. Nonostante questo l'autore muore nel 1731 nella miseria più nera perché aveva ceduto i diritti all'editore. In ogni caso esiste un legame autentico tra il Robinson Crusoe inglese e Venezia: la prima edizione italiana è quella tradotta dal francese e pubblicata nel 1730 dall'editore veneziano Domenico Occhi, con bottega nelle Mercerie: La vita e le avventure di Robinson Crusoè. Storia galante che contiene, tra gli altri avvenimenti, il soggiorno ch'egli fece per ventott'anni in un'isola deserta sopra la costa dell'America.
Alessandro Marzo Magno
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