Il 31 luglio 1954 Lino Lacedelli e Achille Compagnoni raggiunsero la vetta del K2,

Sabato 31 Luglio 2021
Il 31 luglio 1954 Lino Lacedelli e Achille Compagnoni raggiunsero la vetta del K2, la seconda montagna più alta del mondo, forse la più impervia, certamente la più insidiosa e comunque fino allora inviolata. La spedizione era guidata da Ardito Desio, un illustre geologo quasi sessantenne, coronato di onorificenze e titoli accademici, esploratore e giornalista. Per ragioni anagrafiche era inadatto allo straordinario sforzo fisico della scalata. Tuttavia era un ottimo organizzatore, e diresse le operazioni dal campo base a circa 5000 metri di quota.
LA DISCIPLINA
L'impresa, patrocinata dal Cai, dal Cnr e dall'Istituto Geografico Militare comprendeva 30 persone: 13 alpinisti italiani, 12 portatori e osservatori pakistani, e 5 nostri scienziati. Tra questi ne mancavano alcuni di illustri, esclusi in base certificati medici poi rivelatisi fasulli. I maligni dissero che Desio temeva che offuscassero il suo prestigio. Un inizio di polemiche che poi sarebbero proseguite con ben altri toni. Bisognava stabilire 11 campi base distanziati, per assicurare cibo, riposo e soprattutto ossigeno, che dopo i 4000 metri manca rapidamente. Insomma un'impresa dannatamente complessa in condizioni estreme, che Desio diresse con ferrea disciplina militaresca.
Le operazioni iniziarono tra la fine di maggio e gli inizi di giugno, e furono funestate dalla morte di Mario Puchoz, un valido alpinista valdostano, colpito da un'embolia polmonare. Tuttavia proseguirono con ordine e metodo, e i nostri costruirono persino una piccola teleferica. Più il gruppo saliva, più si assottigliava, come la punta di una piramide umana. Il 25 luglio arrivarono in sei a 7345 metri; tre giorni dopo partirono in cinque per stabilire un nuovo campo quattrocento metri più in alto; Walter Bonatti restava indietro per un'indisposizione. Il 29 Lacedelli e Compagnoni tentarono di raggiungere quota 8100, ma furono fermati dal maltempo; gli altri tre compagni Abram, Galloti e Rey furono costretti, per varie ragioni, a rientrare. Restava Bonatti, che si era ristabilito.
L'AMPUTAZIONE
A questo punto la rievocazione si complica, perché i superstiti furono costretti a un viavai dove più o meno tutti si persero. Alcuni dovettero bivaccare a cinquanta gradi sotto zero nella cosiddetta zona della morte senza tende né sacchi a pelo. Ci furono princìpi di congelamento e persino di stato confusionale: gli uomini si accasciavano e si sostenevano a vicenda, consapevoli che cedere alla stanchezza significava addormentarsi e morire. Ma all'alba del 31 luglio Lacedelli e Compagnoni partirono dal campo IX, raggiunsero il bivacco di Bonatti, si rifornirono delle ultime due bombole e attaccarono il tratto finale: alle 18 arrivarono in vetta, e piantarono le bandierine italiana e pakistana. Nell'esultanza del momento si tolsero i guanti per fotografarsi, e si congelarono le mani. Entrambi avrebbero subito l'amputazione di alcune dita. Ma furono sempre convinti che ne valesse la pena.
L'AMOR DI PATRIA
La notizia arrivò in Italia il 3 agosto, e provocò un'ondata di giustificato e incontenibile entusiasmo: il Paese aveva già i suoi eroici atleti, da Coppi a Bartali. Ma l'impresa del K2 non era un tour de France o un giro d'Italia. I due alpinisti avevano vinto la sfida con i migliori scalatori del mondo, e il Paese ne andò giustamente orgoglioso. Da allora i nomi di Lacedelli e Compagnoni furono vincolati in un indissolubile binomio, come Eurialo e Niso, Oreste e Pilade, Castore e Polluce, e oggi Dolce e Gabbana. Nelle fotografie sull'Himalaya i due erano sempre bardati e mascherati, e in quelle a casa erano sempre assieme, talché nessuno ha mai capito chi fosse l'uno e chi l'altro. Ma questo non pregiudicò il loro trionfo. Entrambi furono ricevuti dalle massime cariche dello Stato, e per mesi la loro immagine apparve sulla stampa e sui cinegiornali proiettati nei cinema. Il commento più bello lo fece, naturalmente Dino Buzzati, che da appassionato alpinista aveva anche cercato di aggregarsi all'impresa. «Hanno vinto! - scrisse il giornalista bellunese - Da parecchi anni gli italiani non avevano avuto una notizia più bella. Anche chi non si era mai interessato di alpinismo, anche chi non aveva mai visto una montagna, persino chi aveva dimenticato cosa sia l'amore di patria, tutti noi, al lieto annuncio, abbiamo sentito qualcosa a cui s'era perduta l'abitudine, una contentezza, un palpito, una commozione disinteressata e pura».
L'AMORE
In questa enfasi vagamente churchilliana Buzzati, amabile razionalista sognatore, aveva attributo a questa commozione, e al coraggio dei protagonisti, la trasparenza cristallina del cielo himalayano. Purtroppo non era così. La gioia collettiva fu, almeno in parte, guastata dalle polemiche. Bonatti, che aveva assistito i due dioscuri nell'ultima fase della salita, approvvigionandoli di ossigeno, fu accusato di averli abbandonati per smania di protagonismo, rischiando di far fallire la missione e di provocare una tragedia. Bonatti era un ventiquattrenne montanaro assai esperto, taciturno e roccioso come le montagne che scalava. Negli anni seguenti sarebbe diventato un mito dell'esplorazione avventurosa, tanto che quando la bellissima Rossana Podestà, attrice delusa dal cinema e dal matrimonio, disse in un'intervista che le sarebbe piaciuto ritirarsi in un'isola deserta con quello scorbutico solitario, Bonatti raccolse l'invito e le scrisse una lettera. Nacque un amore solidissimo, interrotto solo dal Grande Mietitore. Ma torniamo alla polemica.
LE VERSIONI
Mentre Ardito Desio redigeva un rapporto ufficiale favorevole ai due eroi della vetta inviolata, Bonatti si limitò, un po' per carattere un po' per amor di Patria, a una generica smentita. Tuttavia alzò la voce nel 1961 con il libro Le mie montagne, successivamente ristampato e aggiornato, dove più che esaltare i meriti propri ridimensionava quelli di Lacedelli e Compagnoni. Seguirono delle cause civili, e progressivamente la versione di Bonatti emerse come la più veritiera. Nel 2004 una commissione di 3 saggi nominata dal Cai smontò quasi del tutto l'originale rapporto di Desio e oggi quasi tutti concordano che senza il concorso di Bonatti, che fu lasciato solo per un'imprudenza di Compagnoni, la missione sarebbe fallita.
Desio e Bonatti morirono a dieci anni di distanza. Il primo il 12 dicembre 2001, alla veneranda età di 104 anni; il secondo il 13 settembre 2011 dopo una breve e crudele malattia. A Rossana Podestà, fu impedito di assisterlo durante le ultime ore, perchè non era la moglie. È facile precipitare dalle vette smaglianti del K2, al baratro buio dell'ottusa burocrazia.
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