Il 21 gennaio 1871 fu approvata la legge che trasferiva la capitale del Regno d'Italia

Sabato 16 Gennaio 2021
Il 21 gennaio 1871 fu approvata la legge che trasferiva la capitale del Regno d'Italia da Firenze a Roma. Il successivo 3 febbraio il provvedimento fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Centocinquant'anni possono sembrare tanti in un momento in cui ogni giorno, e anzi ogni ora, riservano a questo Paese strabilianti novità, ma sono pochi nella storia di una Nazione e nel suo codice genetico. Ancora oggi, infatti, alcuni irriducibili secessionisti affibbiano alla città eterna gli epiteti più irriverenti. Si tratta, ovviamente, di una sineddoche politica, dove la parte rappresenta il tutto e Roma è intesa come governo nazionale. Ma alcuni pregiudizi sulla nostra amata capitale rimangono anche tra i nazionalisti più accesi. Oltre mille anni di governo papalino hanno evidentemente lasciato il segno.
IL TRAMONTO
Roma era stata governata dalla Chiesa dal tramonto dell'Impero. Voltaire aveva scritto che era stata acquistata con la violenza e mantenuta con la frode, alludendo alla mistificazione della donazione di Costantino che Lorenzo Valla aveva smascherato nel 1517. Ma non era proprio così. Lo Stato Pontificio era stato costituito e conservato come tutti gli altri stati, con la diplomazia, i trattati e all'occorrenza con le armi. La Civitas hominis di Agostino non distingueva gli stati laici dai confessionali: entrambi erano soggetti alle stesse leggi dell'utile e della forza.
Durante il Risorgimento le dimensioni di questo potere temporale si ridussero, e con l'Unità d'Italia la capitale fu trasferita da Torino a Firenze. Era un transito provvisorio. Quando, il 20 settembre del 1870, le nostre truppe entrarono in Campidoglio tutti capirono che era solo questione di tempo. E infatti, quattro mesi dopo, l'art 1 della Legge citata suonò così: «La città di Roma è la capitale del Regno». Il mondo accettò il fatto compiuto. Il Papa lanciò l'ennesimo anatema. Ma il governo era impegnato con ben altri problemi.
L'urgenza più pressante era ovviamente la sistemazione urbanistica. Non avendo mai avuto una borghesia consistente, Roma si divideva tra gli estremi dei palazzi patrizi, delle chiese sontuose, dei conventi affollati e delle baracche plebee. Il governo calcolava che fossero necessari più di 40 mila locali per alloggiare il personale aggregato ai vari ministeri e agli altri uffici centrali, e il Municipio aveva risposto che ce n'erano appena 500.
Bisognava quindi programmare, demolire e ricostruire. L'alternativa poteva essere una nuova città satellite, come a modo sua era stata Washington: ma questo sembrava quasi blasfemo a un popolo che identificava il mito di Roma con la sua storia e i suoi monumenti.
LA DISTESA
Così sorsero cantieri a villa Ludovisi, a villa Mattei, a villa Massimo, a villa Torlonia, e nella vasta distesa di vigne tra Castel Sant'Angelo e San Pietro. Molti intellettuali stranieri arricciarono il naso davanti a quello che consideravano uno scempio sacrificato alla speculazione edilizia, e tuttavia, come scrisse Sergio Romano, questi sentimenti non erano condivisi dagli italiani, che vedevano quei luoghi con un misto di disprezzo e di venerazione. In effetti, al di là del doveroso rispetto per le vestigia di indiscusso valore artistico e storico, una città che si affidi solo ai ricordi è moribonda. All'apice della sua gloria la stessa Chiesa demolì delle basiliche protocristiane per edificarne di più grandi e fastose.
La vista di un'amena prateria tra le rovine di un luminoso passato poteva ispirare sentimenti filosofici, come a Volney, artistici, come a Hubert Robert, letterari, come a Goethe, o vagamente emotivi come accade anche oggi a molti intellettuali di raffinata e utopistica sensibilità. Ma un Paese in crescita deve saper sacrificare una parte del passato per vivere il presente, e magari lasciarne traccia alle generazioni future, altrimenti non avremmo la Cupola di Michelangelo né il ponte di Rialto.
L'AVIDITÀ
Naturalmente vi furono i soliti inconvenienti dell'avidità umana e della fantasie più bizzarre: corruzioni, scandali e progetti al limite della demenza, come quello di una ferrovia a cinque metri dal suolo destinata a collegare Piazza di Spagna al Colosseo passando sopra la Fontana di Trevi. Per fortuna prevalse il buon senso, e oggi il centro storico della Roma umbertina non ha nulla da invidiare alla Parigi di Haussmann, più imponente ma anche più uniforme.
Con la proclamazione della capitale, il glorioso periodo del Risorgimento poteva davvero dirsi concluso. L'Italia, come scrisse Croce, da un lato si «cingeva di rimpianto e di malinconia», perché era finita l'età eroica di «un ideale nuovo, alto e remoto, del trepidare di speranze e di rinunzie ai propri concetti particolari per raccogliersi in un fine comune». Insomma si passava dalla poesia alla prosa. E tuttavia, come saggiamente aggiungeva il filosofo, si prospettava un compito non meno difficile e nobile, di consentire agli italiani una vita libera e decente, nell'unità e nella pace.
In questo l'Italia era favorita dalla sua posizione nel concerto europeo, non aveva nemici e stava acquistando rispetto e prestigio. Restava solo la questione romana creata con la breccia di Porta Pia e resa irreversibile proprio dalla proclamazione della capitale. Pio IX si era segregato in quella che definiva una prigionia, e proibiva ai cattolici di partecipare alla vita politica. Il governo, che riconosceva alla Santa Sede lo status di soggetto sovrano, avrebbe voluto regolare i rapporti secondo il diritto internazionale, ma il Pontefice rifiutava ogni accordo considerandolo una tacita e rassegnata accettazione dell'accaduto.
LE IMMUNITÀ
L'Italia rispose il 13 Maggio 1871 con un atto unilaterale, la legge della guarentigie, che concedeva al Papa - persona sacra e inviolabile - prerogative regie con le relative immunità, godimenti esclusivi dei palazzi vaticani e congrue rendite finanziarie. Nemmeno questo «monumento di sapienza giuridica» fu accettato da Pio IX, che lo bollò come una legge di guerra, imposta da un vincitore brutale e insidioso. In realtà questa enclave romana gli consentì una libertà di ministerio che non aveva mai avuto, affrancandolo da quelle interferenze straniere che per secoli lo avevano spesso condizionato e talvolta perseguitato. Quando Bismarck, nel pieno della sua Kulturkampf anticattolica minacciò di spedire a Civitavecchia una cannoniera, capì che il suo era un reato impossibile, perché non c'era più nulla da bombardare, salvo entrare in guerra con l'Italia e il mondo. Così il Papa continuò, com'era suo diritto, a protestare contro i soprusi del ferreo cancelliere prussiano. Un atteggiamento che decenni dopo si ripetè, in modo più affievolito, davanti alla barbarie nazista. La quale umiliò Roma con la presenza di Kappler, ma almeno rispettò le prerogative del Vaticano, dove si erano rifugiati molti politici atei e mangiapreti. Una tardiva e generosa vendetta dell'irritato Pio IX.
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