«Identità è non avere le radici»

Mercoledì 23 Gennaio 2019
Dice Juan Octavio Prenz: «Il premio è un forte messaggio e un invito a tornare ai valori legati alla terra, alle tradizioni, in un fertile intreccio con l'altro e il diverso che porta all'universalità». Il premio è il Nonino che, per la sezione internazionale, gli sarà consegnato sabato a Ronchi di Percoto. Nato nel 1932, argentino di origini istriane croate, nel 1975 è stato costretto all'esilio per motivi politici e si è trasferito prima a Belgrado e Lubiana, poi a Trieste. Prenz arriva in Friuli con un libro di versi, Figure di prua, pubblicato da La nave di Teseo che contemporaneamente ristampa Il signor Kreck, romanzo kafkiano di un uomo che scompare tra le maglie di uno stato che tratta i cittadini come beni di proprietà. Prenz unisce la fantasia epica della grande letteratura latinoamericana e l'ombra misteriosa in cui si dissimulano i personaggi della letteratura mitteleuropea. Come scrive Magris, è un sommesso e appassionato cantore dell'errabonda, dolorosa, sanguigna e picaresca odissea che disperde gli uomini nel labirinto dell'esistenza umana, li fa vagabondare nel mare della vita strappandoli a ogni irrigidita identità ma senza sradicare dal loro cuore una comune fedeltà di destini, affetti, bizzarrie.
Tutto nasce dall'esilio. Ma che cosa è l'esilio per Prenz che lo conosce sulla propria pelle da più di quaranta anni?
«Un'opportunità. Un modo che mi era dato per condividere la storia di altri luoghi e persone. Anche un'imposizione, ma nel momento in cui mi ci sono trovato, ho cercato di assumerlo come una mia scelta. Non sono mai stato succube della nostalgia».
I suoi personaggi non sono chiusi in se stessi. Vivono in mondi e stati che non ci sono più. Non sono sradicati. È il suo ideale di vita?
«Direi di sì. Questa è una questione legata all'identità. Per quei personaggi, e mi ci includo anch'io, l'identità è fondamentalmente un atto di condivisione dello stesso tempo e spazio in cui si trovano, pur nella diversità, in una proiezione comunitaria, comune. L'identità non è solo legata al passato ma anche, e soprattutto, a un progetto futuro».
Sono anche uomini e donne lontane da quelle ossessioni identitarie oggi così prepotenti?
«Un'idea come quella della fissazione identitaria è un equivoco. L'identità è sempre in costruzione, sempre in movimento, e sicuramente, se dovessi scegliere, userei la parola complessità. La fissazione, l'ossessione sono semplici, nel senso più limitante, primitivo e talvolta, purtroppo, pericoloso del termine».
Per molti di loro l'immaginazione trova nella quotidianità un'inesausta fonte di scoperta?
«La vita quotidiana è l'unica possibile, per me non ce ne sono altre. E lì c'è tutto lo splendore e la miseria dell'uomo e del mondo».
Nella Favola di Innocenzo Onesto un uomo si fa tagliare la testa e vi sostituisce una mostruosità. È un'allegoria della perversione dell'uomo nel potere totalitario?
«La domanda la porrei volentieri a lei. Ho semplicemente voluto raccontare una storia il trapianto di testa a un uomo attraverso l'elaborazione fantastica di un evento veramente accaduto che ha colpito la mia immaginazione in gioventù. Il risultato è stato come dice lei, e mi trova perfettamente d'accordo. Un'allegoria non solo della perversione dell'uomo nel potere totalitario, ma della perversione esercitata in ogni atto di potere».
Lei parla in Solo gli alberi hanno radici di un miscuglio di stanchezza e di calma che segue ogni cambiamento. Dal suo attuale osservatorio istriano le sembrano questi nostri anni di cambiamento?
«La frase è riferita a una particolare situazione del personaggio. E credo che nella vita a ogni cambiamento segua un miscuglio di stanchezza e calma. Tuttavia, in termini generali, storici, i cambiamenti sono sempre in atto, anche quando sulla superficie regna quel miscuglio di stanchezza e calma. Solo che noi non sappiamo mai, durante, quale sarà il cambiamento prodotto».
In una sua poesia ci si chiede quali siano le cinque parole più importanti di una vita. E se chiedessi a questo punto qual è la più importante nella sua vita?
«Questa poesia nasce da una domanda postami dal grande poeta e amico serbo Vasko Popa. La conversazione durò a lungo, ma non produsse la lista di quelle cinque parole, bensì produsse, in seguito, la poesia stessa, che come lei sa, finisce con un enigma: quelle cinque parole sembravano condurre / a una qualche remota e unica parola, che, / com'era da prevedere, / mai sarebbe riuscito a decifrare. Per quanto mi riguarda, questa intervista mi trova ancora alla ricerca».
In un'altra sua poesia parla di una strada tragica percorsa dall'incurabile ironico di sempre. Pensa che il miscuglio di tragico e ironico sia il suo modo di far versi?
«Credo che l'ironia sia l'arma o la risorsa fondamentale della mia persona, in quanto uomo e in quanto poeta e scrittore; il tragico sta nella materia sulla quale lavoro. Credo che l'ironia mi permetta di transitare più comodamente per la vita».
Ha conosciuto i grandi della letteratura latinoamericana come Borges e Neruda. Cosa le hanno dato?
«Risponderò con una risposta che ha dato Borges a una domanda analoga a proposito di Pedro Henríquez Ureña: il magistero della loro presenza».
Renato Minore
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci