Un sovrintendente su due ruote

Lunedì 22 Luglio 2019
Un sovrintendente su due ruote
L'INTERVISTA
Di sicuro detiene un record: è l'unico Sovrintendente di Enti Lirici in Italia (e forse in Europa) che è transitato in bicicletta sul Pordoi, 2239 metri, si è fermato sotto il monumento a Fausto Coppi, ha reso omaggio al Campionissimo, è risalito in sella e ha incominciato a pedalare per la discesa. Fortunato Ortombina, mantovano, 59 anni, Sovrintendente e direttore artistico della Fenice di Venezia.
È
nata prima la passione per la bicicletta o per la musica?
«La bicicletta ce l'ho da sempre. Ricordo come se fosse adesso l'emozione che provai a tre anni e mezzo quando tolsi le rotelline alla mia prima bici, e da quel momento la passione non è mai scemata. Poi è arrivata la bici da corsa e quella non l'ho più lasciata, anche se non faccio agonismo. Mi è capitato di giocare al calcio con agonismo, ero stopper e nel 1976 nel Torneo dei Bagni di Forte dei Marmi mi trovai a disputare due partite con Aristide Guarnieri, il mitico stopper della Grande Inter, che mi diede da marcare il giovane Giancarlo Antognoni. Quando Antognoni fece uno scatto e io pretesi di stargli dietro, rimediai uno strappo che mi tenne fuori».
Quante biciclette possiede?
«Ne ho due, la prima comprata da ragazzo da un artigiano mantovano della Bianchi, in acciaio, col cambio Campagnolo: l'aveva battezzata Cavanna che era il nome del mitico massaggiatore cieco di Coppi. Quando ho lasciato Milano ho voluto portarmi un ricordo e sono andato a Treviglio a comprarmi una Bianchi: c'era un meccanico in pensione che aveva fatto le ultime biciclette di Coppi. È una Bianchi su misura, in carbonio. Sono nato che il Campionissimo era morto da pochi mesi. Quando sei in cima al Pordoi e pensi che l'ha fatto con una bicicletta che pesava tre volte la mia e su strade sterrate, pensi all'epico di quelle gesta!».
La sua impresa più impegnativa?
«Ho scalato il Pordoi, modestamente. Quando Dio ha fatto il Pordoi lo ha fatto pensando a tutti e non solo a Vincenzo Nibali. Ci metto almeno un'ora e mezza più di lui per arrivare in cima. Devi fare attenzione alle macchine e ai camion. Io vado quasi sempre da solo».
E la musica quando è arrivata nella vita di Fortunato?
«Non c'era la musica nella mia famiglia. Sono figlio del boom economico, vengo da contadini veneti del Monte Baldo che si trasferirono a metà degli Anni 50 in pianura per continuare a fare i contadini. Col boom, mio padre Luigi lasciò la campagna e mise su una piccola impresa di trasporti e movimento terra, era il periodo in cui si costruivano strade. Allora si poteva fare, c'erano le cambiali e i sogni. Lui guidava uno dei suoi camion, è morto in un incidente. Ho incominciato a pensare alla musica a dieci anni, ero affascinato da uno zio paterno che suonava il clarinetto nella banda della Finanza. Guardavo in tv i programmi di musica classica e il concerto di Arturo Benedetti Michelangeli. Ma l'inizio vero del mio amore per la musica è scattato dopo la morte di mio padre, quando mia madre faceva le pulizie nell'asilo che frequentavo io: nell'aula c'era un armonium con una suora cattivissima che non faceva avvicinare nessuno. Aspettavo che tutti andassero via e, quando c'era solo mia madre, mi avvicinavo a strimpellare».
Il suo primo strumento?
«Doveva essere un clarinetto, invece è stato un trombone! Colpa della burocrazia statale. Ero nella nuova banda e hanno sbagliato l'invio: arrivò un trombone e siccome non volevo restare senza, mi sono caricato sulle spalle la grossa custodia e sono tornato a casa. La prima volta in pubblico è stato per un funerale, mi fece impressione perché suonavo per una persona che avevo conosciuto».
Quando ha deciso di fare il musicista?
«Sono figlio unico, a un certo punto dovevo decidere cosa fare da grande. Dopo il diploma, dovevo occuparmi dell'azienda messa su da mio padre, ma quando si è trattato di decidere ho scelto la musica. Mi sono iscritto a Lettere e ho continuato il Conservatorio. È stata una scelta molto sofferta, da ragazzo andavo ogni estate a lavorare in azienda, a guidare il camion. Ho fatto il Tecnico per Geometri perché in casa occorreva un geometra. Devo dire, però, che se sono diventato direttore artistico e poi sovrintendente, lo è stato anche per la pratica e per gli studi».
La sua carriera passa per Parma, Torino, Napoli e Milano, Venezia.
«Ho avuto periodi bellissimi ovunque e ovunque ho imparato. Sono sempre stato chiamato a ricoprire un incarico, ero a Napoli quando mi arriva la chiamata da Venezia, era iniziata la ricostruzione della Fenice. Ho lasciato per andare quattro anni alla Scala e appena mi hanno proposto di tornare a Venezia l'ho fatto subito. Sono rientrato come direttore artistico e sono qui da 13 anni. Nel 2017, quando il sovrintendente Chiarot è stato chiamato a Firenze, pensavo proprio di aver chiuso, invece mi hanno chiesto anche di fare il sovrintendente».
Chi ha lasciato una traccia nella sua carriera?
«Franco Zeffirelli che ho conosciuto molto bene che mi raccontava quando militare a Milano in guerra aveva visto la Scala bombardata e come era la Fenice quando Visconti ha girato Senso. Poi Luca Ronconi, Claudio Abbado, Riccardo Muti, Luciano Pavarotti, Lorin Maazel. E Mirella Freni e Leyla Gencer che sono state come due zie che mi hanno aiutato moltissimo. Ho conosciuto la Simionato che aveva 92 anni ed era lucidissima e straordinaria».
Oggi parlano di un modello Fenice, ma esiste?
«Consiste, primo in Italia, in un modello di stagione che nette insieme un vecchio sistema all'italiana: sempre titoli nuovi a ogni stagione, senza ripetere mai le cose già fatte. Da un cartellone fatto da otto titoli all'anno che pensava quasi esclusivamente agli abbonati, si è passati a un pubblico anche internazionale. Oggi restano i titoli per gli abbonati, ma hai anche le novità che ritiri fuori in ogni momento dell'anno. È in questa doppia natura che consiste il modello. Bastava sfatare un principio e un timore: produrre di più costa di più? In un anno, tra opere e concerti, facciamo 180 manifestazioni; prima se ne facevano forse 50! Andiamo anche all'estero. Tra tutti siamo 300 dipendenti e il bilancio è in attivo. Noi siamo fortunati, questo è uno dei teatri più belli del mondo. Ha un richiamo internazionale imbattibile».
Dalla finestra arriva il canto dei gondolieri. La Fenice è all'incrocio di tre canali, il cantante di turno accompagnato dalla fisarmonica intona una vecchia canzone di Fred Buscaglione, Guarda che luna. Con Venezia c'entra sempre tutto, figurarsi la luna e il mare. Le voci, forse, non sono proprio educatissime: «Auspico che i conservatori facciano corsi serali per i gondolieri». Più dura che scalare il Pordoi.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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