«Racconto il nostro abisso di esseri umani»

Sabato 16 Marzo 2019
IL COLLOQUIO
Il sommozzatore friulano incarna la legge del mare, secondo cui ogni naufrago va soccorso e salvato. Ma la sua domanda si affaccia su abisso che tutto inghiotte: «Se davanti a tre hai tre persone che stanno andando a fondo e cinque metri più in là sta affogando una madre con un bambino, cosa fai? Chi salvi per primo?». Davide Enia parte da questi interrogativi terribili per svelare la lotta tra vita e morte di tutti coloro che sfidano il mare in cerca di speranza. Dopo 11 anni di silenzio, il drammaturgo e autore palermitano ha scelto L'abisso, tratto dal suo Appunti per un naufragio pubblicato da Sellerio e vincitore del premio Mondello 2018, per tornare sul palcoscenico - stasera all'Astra di Schio e domani alle 18 al Maffioli di Caerano - per raccontare l'esperienza sul campo degli sbarchi a Lampedusa, il contatto diretto con i migranti ma anche con gli uomini delle navi addetti ai salvataggi e con i volontari dell'isola. Accompagnato dalle musiche dal vivo di Giulio Barocchieri a affidandosi alla parola, al cunto siciliano che si fa canto, memoria intima e visione, Enia narra il suo disagio, quello di naufrago perso anche lui tra quelle vite defraudate, e la morte sottomarina di un'isola che sprofonda di morti. Classe 1974, rivelazione nel 2002 con lo spiazzante Italia-Brasile 3 a 2 premio Ubu Speciale nel 2003, cui sono seguiti Scanna (debutto alla Biennale teatro nel 2004), Maggio 43 e i poetici Capitoli dell'infanzia del 2007, Enia è un talento inquieto che vanta un invidiabile palmares di premi in ambito teatrale e la pubblicazione di due romanzi, Così in terra (Baldini e casteoldi Dalai) e Appunti per un naufragio (Sellerio).
Undici anni per tornare sul palco, e con un testo così potente come L'abisso. Cosa l'ha spinta?
«Mi ero reso conto che la scrittura non aveva creato la giusta distanza tra me e i fatti che mi avevano compenetrato durante la stesura del romanzo. E con la musica di Giulio Barocchieri, mi sono dato la possibilità di esplorare il fallimento della parola e il mancamento del corpo».
In che senso?
«È talmente nuovo quello che sta accadendo che la parola ha difficoltà a raccontarlo. Porto a teatro questa sconfitta. Attraverso il teatro mi rimetto nello stato di chi nomina le cose per la prima volta».
L'abisso del titolo è il suo, ma anche di tutti noi come esseri umani?
«Sì, la drammaturgia oscilla da un evento gigantesco, quello della Storia, a un fatto intimo e privato che è mio abisso personale».
Lampedusa, lei e suo padre, lo zio che sta morendo. Tre sguardi che rispecchiano lo spaesamento dell'anima in un luogo-limite. Cosa l'ha sconvolto di più?
«Prendere coscienza della mia incapacità culturale di nominare il trauma. Di qui il processo di riscrittura, di rinominazione, per riuscire a distanziarsi da quello che accade».
Per vedere cosa?
«L'enorme quantità di pregiudizi logico-culturali insiti nel mio sguardo, che ho cercato di forzare e di demolire per osservare in maniera più neutra, fuori di me ma anche dentro di me».
Liberarsi di questi bagagli non è facile
«Nulla è facile nella vita. Il primo elemento di riflessione si appoggia sui depositi di dolore che l'uomo ha dentro di sè. Sono domande immense. Come quelle del sommozzatore. Abbiamo a che fare con una larga fetta di umanità fortemente traumatizzata e il trauma, prima o poi emerge, anche se pensi di non vederlo».
Come modificare lo sguardo?
«Bisogna riuscire a mettersi in condizione di ascolto, rinunciando all'ansia di fare domande e avere la pazienza di attendere che la storia arrivi a te. Devi trovarti lì, si tratta di rispettare profondamente l'altro e la sua capacità di nominare quanto gli è accaduto, senza forzare nulla senza darsi scadenze tempi. Arrivando a Lampedusa ti rendi conto che esiste una narrazione dei fatti drogata, falsa, tendenziosa».
Come si possono raccontare gli olocausti?
«Serve il filtro del tempo. Che oggi non c'è, perché sta accadendo adesso e continua ad accadere. Manca la voce di chi arriva, col reale carico di violenza sui loro corpi. Delle persone che arrivano dalla Libia, sappiamo che hanno subito stupri, mutilazioni, torture. Lo dicono i referti medici. Trovo francamente vergognoso che l'Italia abbia stilato un piano con la Libia, e che venga rimosso tutto quello che accade lì».
Chiara Pavan
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci