«Giulietta e Romeo con divieto di bacio»

Lunedì 10 Agosto 2020
L'INTERVISTA
«Sul palcoscenico oggi Giulietta e Romeo non si possono baciare. Ma si possono tranquillamente uccidere perché in questo caso il distanziamento è assicurato». Shakespeare al tempo del Covid.
Il fatto è che il teatro deve rispettare le regole, è già tanto che Amleto non debba recitare il suo famoso monologo mettendo la mascherina anche al teschio. Niente baci, comunque, e niente abbracci. E questo spiega, almeno in parte, perché un settore così importante sia bloccato. Nel Veneto significa la paralisi di un centinaio di compagnie e di molte centinaia di lavoratori.
Ora qualcosa si sta muovendo, soprattutto per ridare la speranza. Pierluca Donin, 58 anni, di Chioggia, direttore generale di Arteven e presidente nazionale di Arti, l'associazione reti teatrali italiane per i circuiti regionali, assicura che ce la faranno.
Come il teatro in Veneto combatte il Covid?
«Stiamo cercando di riprendere le fila, ma con questa capienza del 50% siamo fortemente penalizzati. La grande paura era che il pubblico non tornasse, invece il pubblico c'è: il teatro è anche una risposta a un mondo di persone sole. Ci stiamo preparando ad affrontare la stagione 2020-2021 molto complessa, non solo per le norme da applicare ma anche perché gli stessi progetti artistici devono essere compatibili. E non siamo davanti a una situazione che smetterà presto. Intanto, bisogna recuperare il più possibile i contratti sospesi per un dovere morale nei confronti delle compagnie».
Cosa rappresentano oggi Artven e Arti?
«Arteven è un circuito multidisciplinare che in un anno fa più di mille spettacoli, raccoglie 300 mila spettatori, fattura 7 milioni di euro. La pandemia ha fatto saltare la festa per i 40 anni, ma restano i numeri: 7 milioni e mezzo di spettatori di tutte le fasce d'età, per 30 mila spettacoli. L'Arti è la voce di 11 circuiti regionali, 800 teatri per quasi cinque milioni di spettatori all'anno, con un fatturato di 50 milioni di euro».
Ma lei è nato col pallino del teatro?
«Forse sì. Sono cresciuto a Chioggia, papà era un impiegato. La Chioggia della mia infanzia era una città dove si andava in calle, non c'erano le auto, la socialità era fortissima. Da piccolo ero appassionato di musica, a 10 anni mi sono disegnato la tastiera di un pianoforte su un pezzo di legno e ho incominciato a suonare, naturalmente alla mia maniera. Mamma a quel punto mi ha comprato un vero pianoforte. Non sapevo leggere la musica, ma mi sono accorto subito di avere l'orecchio assoluto e qualche tempo dopo ero già con una compagnia amatoriale che aveva bisogno di un pianista. Da lì al teatro il passo non è stato lunghissimo».
Come è stato crescere in una città come Chioggia?
«Chioggia è una città strana che è stata Repubblica per un paio di giorni. Città di talenti e anche di personaggi. È isolana quindi culturalmente staccata, quasi autarchica. Questa città non ghettizza, è mista e viva anche per questo: in una calle puoi trovare il grande avvocato e lo spacciatore agli arresti domiciliari. Con un problema: la perdita del dialetto che è un patrimonio straordinario. Ma se i bambini parlano questo italiese e i genitori questo italiota, nel giro di un paio di generazioni la lingua scompare. Per conservarla, da 25 anni regalo alla mia città Baruffe in calle che ora è bloccata: recitano 50 tra attori, ballerini, musicisti. Uno spettacolo che si sposta e tutti parlano in dialetto stretto, il pubblico ha un libretto con la traduzione».
Quando è salito per la prima volta su un palcoscenico?
«Nel 1987 ho visto un manifesto a Padova di una scuola di teatro e sono andato a fare un provino, ho portato una cosa un po' ambiziosa: Tingeltangel, atto unico di Karl Valentin un comico che recitava nella Germania nazista; e poi l'Orlando Furioso. Hanno aperto la porta. Al terzo anno mi sono specializzato sui dialetti antichi veneti. Poi la scuola ha allestito una compagnia teatrale e abbiamo messo in scena la Losca congiura di Sergio Tofano, io facevo il Signor Bonaventura, tutto in rima, dalla prima battuta, i lettori del Corriere di Piccoli ricorderanno: Qui comincia l'avventura del signor Bonaventura.. Nello stesso periodo ho trascritto Frankenstein Junior di Mel Brooks e l'ho portato nel 1988 al Festival di Spoleto, interpretavo Igor. Ma era troppo costoso per farlo girare, così mi sono posto il problema di come qualche spettacolo nasce e muore, di come il sistema non possa funzionare con la produzione separata dall'organizzazione».
È così che è passato dall'altra parte?
«Ho organizzato una rassegna teatrale e mi sono trovato in competizione con Veneto Teatro e ho vinto la battaglia contro una grande istituzione. A quel punto Arteven mi ha chiamato a lavorare con loro e ho mollato il teatro come attore, scrittore, regista. Quando sono diventato direttore, credo anche perché non c'era nessuno disposto a farlo, Arteven era un sistema di distribuzione di spettacoli molto condizionato economicamente dalla politica. Erano, però, i tempi di Tangentopoli, i partiti non concedevano più finanziamenti con disinvoltura, a quel punto il mio compito è stato quello di mettere a posto una baracca piena di debiti evitandone il fallimento. Ci sono riuscito, oggi Arteven è il circuito multidisciplinare più importante d'Italia per numeri e diffusione, E anche il meno finanziato».
Come è stata la vostra rivoluzione teatrale?
«Dopo Mani Pulite la politica temeva tutto, era il momento di diventare indipendenti, di poggiare sugli Enti Locali. La Regione, finalmente, si è accorta di questa struttura che era capace di organizzare i Comix nell'Anfiteatro romano di Verona ma anche uno spettacolo di burattini a Cona. Ha preso atto di questa realtà e l'ha riconosciuta con una legge in modo da farla dipendere sempre meno dagli umori della politica. Siamo partiti da una base associativa di 4 Comuni, oggi sono 80!».
Quali spettacoli vi hanno dato più soddisfazione?
«Essere riusciti a portare il grande regista e attore lituano Necrosius al Toniolo di Mestre, con un'opera che dura quattro ore e mezzo. Poi essere riusciti a Thiene, una cittadina di 20 mila abitanti, ad avere 1500 abbonati! Ora lavoriamo per gestire i teatri direttamente, per controllare l'intera filiera. Fa scuola il progetto di San Donà dove gestiamo l'immobile; lavoriamo in teatri che normalmente sono chiusi, aprono 20 giorni all'anno, dacci le chiavi del teatro e noi lo organizziamo. Ricordo uno straordinario Toni Servillo, non ancora molto conosciuto, a Verona con un'opera di Eduardo, Sabato, domenica e lunedì. Sul piano personale la soddisfazione è avere tra i miei amici due protagonisti della musica e del teatro: Damiano Michieletto, regista lirico, e Giancarlo Marinelli, regista e autore teatrale».
La situazione del teatro veneto oggi?
«C'è molto talento, solo che come al solito i veneti litigano. Una volta ho provato a mettere insieme le eccellenze del Veneto con uno spettacolo, quasi nessuno voleva stare con gli altri. La verità è che da tre persone nascono tre compagnie che sopravvivono a stento. Non riusciamo a esprimere una politica culturale, cosa che riesce benissimo invece la Campania. Io vengo dalla scuola di Micheluzzi che mi prese in compagnia quando ero molto giovane; oggi vedere attori di grande talento che insegnano è sempre più difficile. Uno dei problemi attuali è che c'è una iperproduzione molto simile. L'originalità dovrebbe essere un'opportunità, invece il paradosso è che i grandi attori fanno i classici per andare sul sicuro e le piccole compagnie sperimentano».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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