Gianfranco Bettin
Maurizio Dianese
Tra le ragioni che motivano le assoluzioni

Mercoledì 20 Novembre 2019
Gianfranco Bettin
Maurizio Dianese
Tra le ragioni che motivano le assoluzioni del primo ciclo di processi per Piazza Fontana c'è la mancata dimostrazione di una vera connessione tra le cellule eversive di Padova e Treviso, guidate da Freda e Ventura, con il gruppo di ordinovisti di Venezia e Mestre capeggiato da Carlo Maria Maggi (capo triveneto, in realtà, di ON, cosa che già da sola sottolineerebbe la natura sovraordinata dell'aggregazione articolata in varie provincie del Triveneto e sotto il comando di Maggi).
Se, però, tra la fine degli anni Novanta e l'inizio del nuovo secolo, quando si è celebrato l'ultimo processo per Piazza Fontana, qualcuno avesse rivisto con cura i faldoni del primo processo, quello di Catanzaro, avrebbe trovato elementi importanti, tali da mutare quasi certamente l'esito dei nuovi processi (e anche dei primi, se quegli elementi, già presenti, fossero stati a suo tempo meglio valutati). C'è voluto invece quasi mezzo secolo per far sì che la verità giudiziaria sulla strage del 12 dicembre 1969 si avvicinasse alla verità storica.
Sono stati acquisiti nell' udienza del 23 giugno 2015 - scrivono i giudici della Corte d'Assiste d'Appello di Milano nella sentenza che ha condannato all'ergastolo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte per la strage di Brescia del 28 maggio 1974 - tre assegni bancari reperiti dall'ispettore Cacioppo fra gli atti del procedimento per la strage di piazza Fontana, emessi da Giovanni Ventura a favore di Carlo Digilio tra dicembre 1968 e agosto 1969 e sequestrati il 17 ottobre 1973 presso la Cassa Rurale Artigiana di Vedelago. Gli assegni si aggiungono ai due effetti cambiari dell'importo di 387 mila lire e di 497 mila 900 lire emessi da Digilio a favore di Ventura e da quest'ultimo presentati per lo sconto il 19 il 20 novembre 1970 presso la Banca popolare di Castelfranco Veneto dove, il 7 maggio 1971, su disposizione del giudice istruttore di Treviso Giancarlo Stiz, sono state sequestrate le distinte. Tali risultanze provano inequivocabilmente la sussistenza di rapporti tra Digilio e Ventura, come sostenuto da Digilio e come categoricamente negato da Ventura, che aveva l'assoluta necessità di occultare ogni collegamento con l'armiere del gruppo ordinovista veneziano (corsivo nostro, ndr).
Dimostrare la connessione tra Ventura e Digilio, che quegli assegni provano, significa intrecciare i percorsi delle due cellule ordinoviste, che conducono entrambi a Piazza Fontana (e a Brescia).
Ecco perché, interrogato dal giudice istruttore di Venezia Felice Casson, Ventura mette a verbale: Il nome di Carlo Digilio non mi dice assolutamente nulla. Non so proprio a chi possa attribuirsi.
E più sotto: Il soprannome Zio Otto o Ziotto non mi dice assolutamente nulla. Non l'ho mai sentito.
Ventura, su questo punto, nega con forza, sempre.
E' in questo modo che Digilio, che pure incappa in qualche indagine già negli anni Ottanta (come partecipe di un ricostituito partito fascista), resta un quadro coperto, e nascosto resta soprattutto il suo ruolo di vero e proprio armiere e artificiere di Ordine Nuovo, fino ai primi anni Novanta quando il giudice istruttore milanese Guido Salvini riapre l'inchiesta svelando il ruolo determinante della cellula veneziana e mestrina, e di Digilio stesso, nella stagione delle stragi.
Una specie di triangolo nero si disegna, così, tra Padova, Treviso e Mestre-Venezia, e Digilio è, con Maggi, l'uomo che collega operativamente i tre punti. Se Padova e Treviso compaiono già nella primissima inchiesta del 1971 di Stiz, pubblico ministero Pietro Calogero, Mestre e Venezia restano nascoste per quasi trent'anni proprio perché, del triangolo stragista, erano la parte forse cruciale.
In realtà, alla cellula veneziana si poteva arrivare facilmente. E dimostrare facilmente il suo legame con quella padovana. Se non già negli anni Settanta, per quanto neppure allora sarebbe stato troppo difficile, di sicuro negli anni Novanta. Magari a partire da una piccola cittadina (poco più di diecimila abitanti, all'epoca, oggi oltre ventimila) a ovest di Treviso, di nome Paese, luogo di cave, ora in parte dismesse, di rogge e canali artificiali alimentati dal Piave per gli usi agricoli, ora anche di capannoni e centri commerciali disposti lungo la via Postumia, arteria di epoca romana, e dilaganti sul territorio dell'antica centuriazione, assediando alcune piccole preziose pievi e qualche pregevole villa veneta.
In un casolare di Paese, che i vecchi proprietari di una di queste ville, villa Bon (ex villa Onesti, del XVIII secolo), utilizzano come pollaio, nel 1969, stando alla memoria di Digilio, si trovano infatti, riuniti in un colpo solo, il trevigiano Giovanni Ventura, i veneziani Carlo Digilio, il mestrino Delfo Zorzi e il padovano Marco Pozzan (amico e sodale di Franco Freda).
E' un'adunata che, per li rami, può portare in realtà, molto più lontano di Paese e anche molto oltre il triangolo nero tra Venezia, Treviso e Padova. Identificare e seguire per tempo le tracce di Maggi avrebbe significato arrivare, ad esempio, al gruppo veronese di Marcello Soffiati (1949) - ordinovista e informatore del Comando Nato di Verona, poi sospettato di aver portato la bomba di Piazza della Loggia - e quindi al gruppo milanese La Fenice, affiliato a Ordine Nuovo, di Giancarlo Rognoni (Milano 1945), sospettato di aver dato appoggio logistico agli stragisti del 12 dicembre.
Rognoni, in quegli anni, viene spesso a Mestre e si incontra con i camerati che poi finiscono indagati per le stragi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci