«Difendo il dialetto e salvo un'identità»

Martedì 25 Febbraio 2020
IL PERSONAGGIO
Dindio, dindiòt, dingio ma anche pìto, pitón e piòt. Muc, cruc, tamùc, tamòc e ancora rùmola, mùsiga, sólva. Non sono vocaboli di chissà quale arcano linguaggio, ma termini della comune parlata di un tempo che sono inesorabilmente destinati a scomparire dal patrimonio linguistico veneto a proposito di tacchini, tedeschi, talpe, tanto per fare qualche esempio. Ci ha messo dodici anni Giovanni Tomasi a setacciare tremiladuecento parole dialettali che sono scaturite dalle scorribande di venetici, romani, greci e longobardi. Il medico linguista e umanista trevigiano che vanta oltre cento titoli nel suo palmarès editoriale, ha girato in lungo e in largo le valli del Brenta, del Piave e del Cellina parlando con le memorie storiche di borghi e città, armato di questionario con oltre duecento domande da cui trarre una risposta nel miglior dialetto possibile.
E per completare il confronto, si è spinto sino ai confini del Cadore e dell'Agordino, aggiungendo le aree trevigiane, quella veneziana di San Donà di Piave e del vicino Friuli. Ecco pubblicato quindi uno dei lavori più complessi mai realizzati a proposito di ricerche sui dialetti veneti settentrionali, in un vasto territorio di oltre seimila chilometri quadrati.
Dialetti e Tradizioni delle Prealpi Venete Orientali è il suo ultimo lavoro editoriale. Riguarda il territorio compreso tra le valli del Brenta, del Piave e del Cellina. Sono state studiate 50 località con un questionario di 220 domande e risposte in dialetto.
Sono state integrate per raffronto anche le aree a nord sino ad Agordo, mentre a sud l'autore si è spinto a San Donà di Piave e il confinante Friuli con altri 37 punti di analisi. Viene investigato l'universo locale, studiato nelle varianti dialettali ed etnografiche. Un capitolo concerne il lessico particolare (etnici, gergo, linguaggi degli artigiani, numerali, traslati geografici). In totale sono raccolte oltre 3200 parole, spesso ormai quasi dimenticate. Il volume di 359 pagine, pubblicato da Dario De Bastiani Editore, comprende un atlante linguistico costituito da 36 tavole e 280 illustrazioni.
I dialetti sono in forte arretramento, destinati a scomparire. Quali le cause?
Sicuramente una delle motivazioni è stata l'influenza da parte delle grandi città. Venezia per prima, che nel corso dei secoli ha fatto sentire il proprio peso modificando la parlata locale, specie nel territorio di pianura, molto meno in quello montano. Poi la scuola, il servizio militare e le guerre, che nel corso del tempo hanno fatto incontrare giovani di tutta Italia. Infine, nell'ultimo secolo, gli invasivi mass media. È quasi impossibile che dialetti o lingue minoritarie resistano, solo una forte coscienza della propria identità potrebbe scongiurarne la fine. Valgano per tutti gli esempi dell'ebraico, lingua morta oltre duemila anni fa, o del celtico d'Irlanda: oggi sono divenute entrambe lingue ufficiali. Anche il celtico di Cornovaglia, estinto da oltre due secoli, è rinato.
Esistono decine di dizionari dialettali. In che cosa si distingue la sua opera?
In effetti in alcune delle aree da me analizzate esistono dizionari dialettali ma, a differenza di questi, nel mio studio le parole sono localizzate assegnando una spiegazione etimologica e sono inserite nel loro contesto. Con questo sistema ho potuto ricostruire le aree lessicali e le diverse influenze anche grazie a specifiche tavole geografiche che si riferiscono ad un'area molto vasta.
Non solo attività rurali ma anche il mondo soprannaturale. Quali sono stati i temi per i suoi studi?
Mi sono concentrato su più campi semantici, in pratica tutto ciò che riguarda l'uomo, dai giochi infantili, alla caccia, dall'alimentazione all'agricoltura e all'allevamento, senza tralasciare la botanica, la zoologia, l'acqua e alcuni nomi di luogo. Una particolare ricerca l'ho dedicata al soprannaturale, che fu ben radicato nella vita dei nostri antenati, sia riferito alla religione cristiana che al mondo magico e leggendario.
Perché vi sono così tante varianti dialettali per un unico concetto?
Perché molti e diversi sono stati gli apporti linguistici nel nostro territorio negli ultimi tremila anni, specialmente da parte di Veneti, Celti, Romani e dalle popolazioni di origine germanica come i Goti, i Longobardi, i Tedeschi.
Da chi ha avuto le informazioni? Ci racconti un incontro particolare.
Di norma ricevevo informazioni dagli abitanti del posto aventi una buona conoscenza dialettale. Qualche volta anche da dizionari dialettali locali o dalle inchieste dell'Atlante Italo Svizzero, o dell'Atlante Storico Linguistico Friulano. Spesso ho consultato i documenti antichi, specie quelli medioevali. Incontri particolari? Beh, ce ne sono stati molti. Mi piace ricordarne uno del tutto casuale, con Bruno Lorenzon di Refrontolo. Un uomo che viveva in sintonia con la natura che lo circondava. Nelle lunghe passeggiate fatte assieme a lui sulla Costa Bavera mi indicava erbe, fiori, cespugli ed alberi, di cui conosceva il nome dialettale, le peculiarità, l'uso o la pericolosità.
Alcuni termini sono di difficile interpretazione circa le loro origini. Come mai?
Perché più antico è il termine, meno facile è poterlo spiegare dal punto di vista etimologico. Non abbiamo infatti dizionari completi di venetico, celtico o longobardo.
Qual è stato il vocabolo dialettale più complesso da studiare?
Il penzolo d'uva, ossia il tralcio con due o tre grappoli. Nelle nostre zone indica sia quello da appendere al muro per utilizzarlo d'inverno come frutta secca, sia l'aggiunta alla paga data al vendemmiatore. Ciò crea confusione perché la risposta è duplice e non è facile districarsi. Molto complesse anche le domande sulla patologia animale perché spesso ormai è nota solo la definizione scientifica, quella dei veterinari.
Giovanni Carraro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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