«Di nascosto copiavo il mestiere a Strehler»

Domenica 14 Gennaio 2018
L'INTERVISTA
«La mia prima esperienza teatrale come attore fu a uno spettacolo di bambini: mi diedero la parte di Gesù; e se ti capita una cosa del genere difficilmente pensi di recitare in futuro, perché hai già sostenuto tutti i ruoli possibili in partenza». Maurizio Scaparro, classe 1932, sorride, in un piccolo attico dalle parti del Pantheon, ricordando quell'esordio teatrale; eppure oggi non si può pronunciare il suo nome senza pensare a un palcoscenico. «Sì, il teatro oggi può dirsi quasi connaturato in me, ma da ragazzo facevo il magazziniere di una grande società, e quindi non avevo tempo per vedere spettacoli»
Che cosa faceva?
«Lavoravo, e insieme studiavo; poi il destino ci ha messo del suo. Frequentavo Mario Scaccia. Non avrei mai pensato che il mio maestro di allora sarebbe diventato un mio attore per commedie come Chicchignola di Petrolini. L'amore per il teatro è arrivato quasi impercettibilmente».
Come è successo?
«Sono nato a Roma, in piazza Gioacchino Belli, e già se vieni al mondo in un posto del genere sei tagliato bene. Ho vissuto dalle parti di piazza Bologna, in via Pisa, che confinava con via Livorno, dove abitava un mio amico, che si chiamava Luca Ronconi. Andavamo al cinema assieme; ma è stato lui, che già faceva l'attore, a incuriosirmi. Poi, all'Avanti! mi chiesero di aiutare il grande Ghigo De Chiara... allora la critica era importante; non come adesso. Oggi ha senso? Viene letta? È oggetto di attenzione?»
Secondo lei?
«Secondo me no. E però il teatro continua ad andare bene; e questo non è certo merito dei giornali - che non ne parlano - ma della gente che continua a riempire i teatri... se io dovessi intervistarmi lo sa cosa mi chiederei?»
No, cosa?
«Mi direi: che cosa ci aspetta il domani? Bene, tra tutte le cose che presumibilmente comporranno il nostro futuro, non potrà mancare il palcoscenico. Per i ragazzi, i millennial, il teatro è importante, non è un oggetto rétro. Una delle emozioni più belle che ho provato è stata quando sono andato a vedere un mio spettacolo con Giorgio Albertazzi, Memorie di Adriano, che negli anni è stato un vero cult. Mi affacciai durante una delle tante repliche; era uno spettacolo per le scuole...
E cosa vide?
«Ciò che mi colpì fu l'assoluto, religioso silenzio e poi, quell'ovazione... seicento ragazzi che ascoltavano parole, parole, parole, parole della Yourcenar, attraverso la voce di Albertazzi. Gli stessi millennial che frequentano il mondo digitale. C'è uno scompenso notevole tra Adriano e il linguaggio dei social. Mi chiedo: noi, uomini del millennio passato, stiamo insegnando loro qualcosa? A monte c'è un fatto grande, la parola. E la parola è teatro. Non si scappa».
Com'è nata la passione per la regia?
«A un certo punto ho lasciato il mio lavoro, dove guadagnavo moltissimo - ero un dirigente della Remington - e ho detto a mia madre: sai, lascio perdere le macchine da scrivere e vado a dirigere l'ufficio stampa del teatro di Bologna nell'arco di 5 anni sono diventato direttore. L'interesse per la regia arrivò spontaneamente, studiando di nascosto, infilato nei palchi, le prove di Virginio Puecher, Giorgio Strehler, Vittorio Gassman cosa ne sapevo io che facevo il critico? Poi, a un certo punto, ho pensato: quasi quasi mi butto».
E come è andata?
«Mi sono ritrovato a fare la mia prima regia, che fu un successo clamoroso. La venexiana, con Laura Adani, al Festival dei Due Mondi (era il 1965, ndr)».
Un debutto in grande stile.
«Fu lo stesso Gian Carlo Menotti a chiamarmi. Allora era un testo sconosciuto, molto pericoloso per la censura; eppure è stato l'unico spettacolo che ho ripreso per tre volte nell'arco di venti-trent'anni, prima con Laura Adani, poi con Valeria Moriconi, e infine con Claudia Cardinale, in francese, a Parigi. L'altro spettacolo che mi piace ricordare di quei primi anni è Festa grande di aprile di Franco Antonicelli, dedicato ai venti anni dalla Liberazione dell'Italia»
Cosa ne pensa cosa dell'avanguardia di oggi?
«Mio padre era firmatario del Teatro aereo futurista, quindi fortunatamente nasco bene».
E i vari Michieletto, Barberio Corsetti?
«Ne penso tutto il bene possibile. Il mio ultimo spettacolo è stato Aspettando Godot di Beckett che certamente è stato l'avanguardia di tanto teatro d'oggi. Il rapporto con la tradizione non si interrompe mai».
I più grandi registi che ha conosciuto?
«Quando facevo il critico i grandi erano Strehler, Luchino Visconti, Romolo Valli, Vittorio Gassman: tutti hanno condizionato la mia vita e sono diventati miei amici. Certo, Visconti aveva un modo di dirigere quasi maniacale, molto lontano dal mio: persino un fiammifero doveva essere come voleva lui».
Gli anni migliori?
«Quando ho diretto il Teatro di Roma per dieci anni gloriosi ho fatto spettacoli come il Don Chisciotte, con Pino Micol, che abbiamo portato a New York. E Galileo di Brecht, a Berlino Est e a Mosca».
Chi le piace del teatro di oggi?
«Ci sono attori giovani di estremo interesse, ai limiti dei millennial. Ho un progetto con Lino Guanciale, con cui spero di lavorare assieme».
Quali attori sono stati per lei fondamentali?
«Anzitutto Pino Micol, sorprendente, giovanissimo Amleto e poi protagonista di molti altri miei spettacoli. Giorgio Albertazzi, che era prima di tutto un amico. E Massimo Ranieri, per il suo Pulcinella portato fino a New York, e il suo Viviani. Irene Papas era simpaticissima, abbiamo fatto la Medea all'Olimpico di Vicenza e poi in televisione».
E Gigi Proietti?
«Mi spiace non avere avuto l'occasione di lavorare con lui perché è un grande attore che ha fatto per Roma moltissimo senza avere ricevuto nulla, o quasi, in cambio».
Ha mai fatto qualcosa di veramente folle?
«Quando sono stato nominato direttore del Teatro di Roma mi chiamò Jack Lang (ministro della Cultura al tempo di Mitterand, ndr) e mi chiese dirigere il Teatro d'Europa a Parigi. Strehler era appena morto. Risposi di no, mi faceva male il pensiero di succedergli in quel modo».
Grandi autori che ha amato?
«Direi banalmente Pirandello, Shakespeare».
E che ha conosciuto?
«Quando ero direttore della Biennale Teatro di Venezia, mi dissero: È arrivata la Yourcenar; io non pensavo ancora alle Memorie di Adriano, era arrivata con la sua amica in un alberghetto e andai a salutarla. Mi chiese, banalmente, del nostro Carnevale; ma per me fu come incontrare un monumento. Ah, ma non posso certo dimenticare Dario Fo: ha dormito in quella stanzetta (mostra un angolo della casa, ndr), quando veniva a Roma e non voleva farsi vedere in giro. L'Avanti! era l'unico giornale che difendeva il suo diritto di fare televisione».
Con l'età si diventa saggi?
«Non credo che con l'età si diventi più saggi, si acquisiscono, semmai, più nozioni. Saper usare gli anni che ti sono stati dati è una grande forza. Non mi piace l'antitesi giovane-vecchio, ma stupido-intelligente è già un'antitesi più interessante»
Il segreto della longevità?
«Avere un po' di culo... (ride, ndr) No, scherzo, la soddisfazione aiuta a stare bene. La Fondazione Cini sta elaborando tutto il mio archivio storico in forma digitale: sta nascendo un Centro Studi Scaparro che sarà disponibile in tutto il mondo. Sì, penso proprio che la parola sia il grande argomento di oggi. Il valore che non dobbiamo dimenticare».
Riccardo De Palo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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