Dal Friuli a Milano l'orgoglio di sala

Mercoledì 23 Ottobre 2019
Dal Friuli a Milano l'orgoglio di sala
Giulia Gavagnin
Spesso devono decidere tutto in un secondo, senza distrazioni né troppe riflessioni. Danzano tra i tavoli, debbono essere discreti ma presenti, avere occhi davanti e dietro, estrinsecare la sublime arte della gentilezza e del savoir-faire. Non è un caso che si senta dire sempre più frequentemente che il successo di una serata al ristorante dipende in gran parte dalla figura del maître di sala. L'immagine del maître è stata a lungo offuscata dalla mitologia dello chef, che la televisione per anni ha rappresentato come una sorta di ibrido tra un attore, un calciatore ed un artista, condizionando le scelte professionali di migliaia di giovani, che oggi si trovano magari in fondo alle rigide gerarchie delle cucine, senza una reale prospettiva di carriera. Avessero considerato, invece, l'ipotesi di gestire le sorti della sala anziché dei fornelli, avrebbero avuto forse vita migliore.
Ne è fermamente convinto Nicola Dall'Agnolo, friulano di Maniago (PN), che dai tempi della scuola alberghiera di Aviano ad oggi, di carriera ne ha fatta davvero. È lui, infatti, il deus ex machina della sala de Il luogo di Aimo e Nadia di Milano, un'istituzione dell'altissima ristorazione, fondato negli anni 70 da Aimo Moroni, toscano di origine e meneghino nell'abnegazione e nella dedizione al lavoro. Oggi Aimo si è ritirato dalla scena, ma la sua filosofia è portata avanti con successo dalla figlia Stefania, che ha scelto due chef diversi tra loro ma felicemente complementari che anche grazie alla diversa provenienza geografica si completano a vicenda: Fabio Pisani, pugliese e Alessandro Negrini, valtellinese.
Il punto di raccordo tra i due è proprio Nicola Dall'Agnolo, che con la caparbietà tipicamente friulana che lo contraddistingue, contribuisce a trasformare una grande esperienza che rimarrebbe altrimenti relegata in un ambito strettamente culinario in un'esperienza a tutto tondo. Anche grazie a una prontezza decisionale che deve essere non comune: «Una sera avevamo la sala interamente prenotata tranne un tavolo che al massimo poteva contenere cinque persone. Riceviamo una richiesta di prenotazione da un cliente che con accento americano ci chiede un tavolo per sette persone e gli diciamo che purtroppo era rimasto disponibile soltanto un tavolo per cinque. Ho insistito per farli arrivare comunque, benché avessi precisato che sarebbero stati un poco più sacrificati dell'usuale. Ho spostato solo un tavolo per farli accomodare nel modo migliore possibile e una volta arrivati, con grande sorpresa, scopriamo che uno dei commensali era Woody Allen. Quella sera è ovviamente rimasta indimenticabile per tutti gli ospiti del ristorante, che hanno avuto l'opportunità di cenare in presenza di una delle più grandi star di Hollywood».
Questa è soltanto una delle ragioni che ha spinto Dall'Agnolo a intraprendere una carriera che oggi avrebbe molto da dare ai giovani: la possibilità di entrare in contatto con persone di tutti i generi, dai più umili ai più grandi ingegni del mondo. Certamente, gli inizi sono stati di dura gavetta, com'è giusto che sia. «Alla scuola alberghiera di Aviano avevamo un insegnante particolarmente severo il quale, se sbagliavamo una volta il servizio ci tirava un pizzicotto, se sbagliavamo due volte ci tirava un calcio negli stinchi dicendo: ma tu vuoi fare il cameriere o la serva?». Questa rigida disciplina, oggi forse impensabile, ha portato un Dall'Agnolo giovanissimo nei grandi ristoranti di Svizzera, Francia e Inghilterra, fino a tornare in Italia in un locale che è rimasto mitologico tra gli addetti ai lavori: la Certosa di Maggiano a Siena, il cui ristorante era officiato da Paolo Lopriore, uno dei grandi allievi di Gualtiero Marchesi.
Poi il caso ha voluto che dopo un anno sia giunta la chiamata da colui che di Marchesi è sempre stato il contraltare a Milano, cioè proprio Aimo Moroni. Un palcoscenico di primo piano nella città più europea d'Italia. Il luogo dove Dall'Agnolo ha portato la propria esperienza internazionale mitigandola con un'affabilità del tutto italiana, che si è rivelata essere un'arma vincente anche in situazioni che definire particolari è un eufemismo. Tra una rielaborazione dello chef della classica ricetta pugliese «riso patate e cozze» e un sontuoso piccione di Miroglio il maître ricorda divertito: «una sera è arrivata una coppia che definirei di bell'aspetto, ma si capiva che la giovane signora era già contrariata. A un certo punto lei, quasi in lacrime mi chiede di chiamarle un taxi. Io non ho chiamato il taxi, sono uscito, ho rincuorato la ragazza, sapendo che se fosse andata via il compagno sarebbe rimasto da solo. Alla fine sono riuscito a convincerla a tornare al tavolo, e il compagno mi ha ammiccato tra l'ammirato e il compiaciuto. Hanno faticato ad andarsene. Lui mi ha ringraziato calorosamente, dicendo che una serata da incubo si era trasformata tra le più belle della sua vita. Lei era una starlette della tv e in seguito non ha fatto altro che parlare bene di Aimo e Nadia».
Il lavoro di sala è composto, dunque, di piccole e di grandi soddisfazioni. Dall'Agnolo osserva con rammarico che proviene da una lunga tradizione friulana di ristorazione di sala (il padre e il nonno erano ristoratori, ma molti pordenonesi hanno fatto carriera in questo settore in giro per il mondo) che oggi si sta perdendo. «Invito i miei conterranei a tornare a occuparsi della sala: per me è il mestiere più bello del mondo, perché mette a contatto con la gente, permette di lavorare in tutte le parti del mondo e imparare tante lingue, insegna l'arte dell'eleganza, regala molti sbocchi professionali. Non da ultimo, un maître può guadagnare più di uno chef». Di questi tempi, non è davvero poco.
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