Campigotto l'esploratore di immagini

Domenica 23 Settembre 2018
Campigotto l'esploratore di immagini
IL PERSONAGGIO
Cosa bisogna fare perché le foto trasmettano un'arcigna struggente bellezza e sappiano mostrare tutti i lati solidi e vaporosi dell'esistenza di paesaggi, architetture e rade figure umane? Leggere tanto. E soprattutto scambiare un libro di foto di Venezia dall'alto con un volume di Montale per portarlo sempre con se, trasformando quelle parole nel proprio respiro fino a che i passi saranno poesia. Difficilmente un fotografo, un bravo fotografo riesce a spiegare come si fanno belle fotografie. Parla di tante cose, qualche volta della sua macchina, poche volte della sua anima.
SENSO E MOVIMENTO
Stavolta uno dei più importanti fotografi italiani - Luca Campigotto, nato nel 1962 a Venezia, un laurea in storia sui viaggi del Cinquecento - affianca all'enorme macchina fotografica a lastre una penna. E trasferisce nelle pagine lo spirito della ricerca, il senso e il significato del muoversi nelle tracce già segnate nell'infanzia e adolescenza. Lo ha fatto in un libro Disoriente (Postcard editore) che sarà presentato oggi alle 11.30 in via Ospedale Vecchio nella sede dell'esposizione che resterà aperta fino al 24; in collaborazione con Pordeneonelegge.
IMMAGINI TEATRALI
Se gli sguardi diventano parole si verificano alcune magie e perfino le note ritrosie di Luca Campigotto diventano storie. Intrecciando i suoi studi, la maniacalità dal laboratorio, la sopportazione della fatica da monaco zen, l'entusiasmo disadorno di Hugo Pratt e Corto Maltese l'artista ci accompagna per una lunga corsa nel tempo e nei luoghi. A partire da quando, scrive: «Era l'inverno del 1991, e io ero un fotografo in cerca di idee. In mancanza di una grande frontiera geografica da esplorare (in cuor mio, il West di Robert Adams e Carleton Watkins, i campi di battaglia di Roger Fenton in Crimea o Il Cairo dei fratelli Beato), una sera uscii con una reflex e tentai le mie prime fotografie notturne a Venezia. Era molto buio, faceva freddo; feci solo qualche scatto, pensando non sarebbe venuto fuori niente, e mi affrettai a tornare a casa. Fu una sorpresa, l'indomani, scoprire che le immagini che avevo ripreso restituivano un'atmosfera teatrale. Nella trasparenza leggera del negativo pareva di sentire anche l'umidità; il suono, così familiare, dell'acqua che si muove appena. Così mi feci prestare una macchina a lastre unico punto di contatto con i miei autori prediletti e iniziai a fotografare sistematicamente la città.
UN DIARIO DI EMOZIONI
La storia di questi scatti diventa diario delle emozioni, lezione di logica e filosofia: «Le fotografie danno vita alla materia dell'indimenticabile.- scrive - Io le amo, perché illudono di poter ritrovare quanto è perduto, o ciò che non si è mai posseduto. Un ultimo sguardo trasforma in icona quel che si teme di non vedere più. Nella suadente infedeltà del bianconero, il sogno è premeditato. Forse, la fotografia è lo strumento supremo della nostalgia».
Campigotto non ha paura, non è incosciente. Ha uno sguardo che sta dentro tutte le atmosfere: come quelle che raccoglie in Marocco per fotografare le casbah fortificate, con in mente la grande ambientazione della prima parte del Tè nel deserto di Bertolucci. Quel film mi aveva svelato proprio un'idea di infinito: quando, verso la fine, la cinepresa si alza lentamente alle spalle di Kit e Port abbracciati sul limite del precipizio e dietro si stende il deserto a perdita d'occhio. In quell'attimo, il loro sgomento di amanti disperati che non si riconoscono più si sposa con la forza titanica del paesaggio in cui si sentono smarriti. Quante volte mi sono sentito così? Io adoro il vituperato infinito romantico. E lo stile ottocentesco che parte dalla sua Venezia solitaria, da San'à senza anime umane, dalla Cina quasi da cartolina, indispensabilmente iconica.
NELLA STORIA
A Giza, nell'area delle piramide non teme di dire che qui è come entrare nel parco giochi della Storia. Per questo arrivato nel posto dove voleva essere fin da quando ha cominciato l'apprendistato fotografico sente che i padri nobili. Du Camp, Frith, Bonfils lo seguono. E Antonio Beato, che pare sia nato a Venezia annota nel libro - dispensa qualche consiglio: «Spostite un poco più indrio cussì se vede megio st'altra piramide». Al gruppetto si unisce David Roberts. Adoro i suoi disegni e ne ho uno, naturalmente falso, appeso in salotto. Bellezza arcigna, ricordate? A Luca Campigotto piace esplorare i contorni della vita, nonostante il destino. Come quella passata nella Grande Guerra (il suo volume sulle Dolomiti ferite nel 1915-18, è stato commissionato dalla Presidenza del Consiglio. E lui scrive: «Negli anni più belli i giorni più tristi» recita un'iscrizione rinvenuta sulle montagne della Carnia. D'un tratto, ci appare una moltitudine di immagini color seppia. Commoventi foto d'epoca da cui spuntano facce tipiche del primo Novecento baffi e capelli a spazzola. Facce di montanari o di terroni saliti a combattere al nord. Pare quasi di vederli per davvero. Un esercito di soldati in forma di ologramma. Ci sono tutti e ci fanno strada lungo la salita. Da Porto Marghera ad Arles, da New York a Petra, passando per il Molino Stucky, il Tagliamento, il Ponte dei sospiri, navi strette nei ghiacci artici. Le foto di Campigotto sono i versi di tante poesie. Parole che contengono la storia e gli sguardi che sono come colpi di fucile. Modernissimo. Ottocentesco.
Adriano Favaro
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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