L'INTERVISTA
La rassegna Nave de Vero in Jazz del centro commerciale di Marghera chiude venerdì alle 21.30 invitando il pianista e compositore romano Antonio Faraò, insieme ad artisti d'eccezione: Dennis Chambers (alla batteria); Gary Grainger (basso); Enrico Solazzo (tastiere); Chase Baird (sassofono) Simona Bencini, storica voce dei Dirotta su Cuba; il rapper londinese Dynamite MC. Eklektik è il più recente progetto di Faraò, un lavoro dalle sonorità fusion e funky.
Da quanto tempo collabori con questa eclettica formazione e come si è creata?
«È una mia idea. Generalmente si tende a scegliere altri musicisti che suonano in modo a te affine, che hanno lo stesso tuo linguaggio. Ma la formazione così composta è nuova: credo che sarà una bella sorpresa anche per il pubblico».
E l'album Eklektik com'è nato?
«È nato intorno al 2004: ci avevo lavorato con il bassista Dario Rosciglione, arrangiando i miei brani, ma poi il progetto in quel momento non è decollato e più tardi l'ho ripreso e ho rifatto tutto da capo. Ci ho lavorato 2 anni. E ora di Eklektik vado molto fiero. I critici hanno sempre bisogno di etichettare, anche ciò che non va etichettato, non capisco perché».
Da dove trai l'ispirazione per le tue composizioni e come la traduci in musica?
«Dal mio passato, dalla mia infanzia, anche da brutti ricordi: non c'è una regola. Un anno fa, ad esempio, ho sentito di dover scrivere un brano sui bambini siriani (o forse su tutti i bambini), Syrian Children, che non ho ancora registrato. Sono molto sentimentale e nostalgico. In genere, quando mi viene in mente un ritmo, una melodia, un accordo, memorizzo subito registrando con il cellulare, ma anche qui non c'è una regola».
La tua è una famiglia musicale (padre, madre, fratello, cugino): quanto ti ha influito?
«Non è matematico diventare musicisti, bisogna essere portati. Però sicuramente ascoltare vinili di buona musica dall'età di 2 anni, mi ha agevolato. Ed anche la loro iniziativa di portarmi ai concerti: a 6 anni, nel 1971, al Lirico di Milano a sentire Ella Fitzgerald con Count Basie».
Che rapporto hai con il pianoforte?
«Non ho il classico rapporto amore-odio: studio tutti i giorni (sennò sto male); tendo a mettermi in gioco, e se qualcosa non funziona me la prendo con me stesso. Quindi amore, sicuramente. Odio no».
Suoni più all'estero che in patria: ti trovi meglio?
«Mi capita così, sono stato coinvolto nei progetti di altri musicisti stranieri, ho registrato per un'etichetta tedesca e a New York. Mi trovo bene soprattutto a Parigi perché si è più sulla scena internazionale e mi sento apprezzato artisticamente».
Prossimi progetti?
«Un Eklektik 2 (i critici sono avvisati), e un disco in trio con il bassista Ira Coleman e il batterista Mike Baker, tendenzialmente più acustico».
Elena Ferrarese
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA La rassegna Nave de Vero in Jazz del centro commerciale di Marghera chiude venerdì alle 21.30 invitando il pianista e compositore romano Antonio Faraò, insieme ad artisti d'eccezione: Dennis Chambers (alla batteria); Gary Grainger (basso); Enrico Solazzo (tastiere); Chase Baird (sassofono) Simona Bencini, storica voce dei Dirotta su Cuba; il rapper londinese Dynamite MC. Eklektik è il più recente progetto di Faraò, un lavoro dalle sonorità fusion e funky.
Da quanto tempo collabori con questa eclettica formazione e come si è creata?
«È una mia idea. Generalmente si tende a scegliere altri musicisti che suonano in modo a te affine, che hanno lo stesso tuo linguaggio. Ma la formazione così composta è nuova: credo che sarà una bella sorpresa anche per il pubblico».
E l'album Eklektik com'è nato?
«È nato intorno al 2004: ci avevo lavorato con il bassista Dario Rosciglione, arrangiando i miei brani, ma poi il progetto in quel momento non è decollato e più tardi l'ho ripreso e ho rifatto tutto da capo. Ci ho lavorato 2 anni. E ora di Eklektik vado molto fiero. I critici hanno sempre bisogno di etichettare, anche ciò che non va etichettato, non capisco perché».
Da dove trai l'ispirazione per le tue composizioni e come la traduci in musica?
«Dal mio passato, dalla mia infanzia, anche da brutti ricordi: non c'è una regola. Un anno fa, ad esempio, ho sentito di dover scrivere un brano sui bambini siriani (o forse su tutti i bambini), Syrian Children, che non ho ancora registrato. Sono molto sentimentale e nostalgico. In genere, quando mi viene in mente un ritmo, una melodia, un accordo, memorizzo subito registrando con il cellulare, ma anche qui non c'è una regola».
La tua è una famiglia musicale (padre, madre, fratello, cugino): quanto ti ha influito?
«Non è matematico diventare musicisti, bisogna essere portati. Però sicuramente ascoltare vinili di buona musica dall'età di 2 anni, mi ha agevolato. Ed anche la loro iniziativa di portarmi ai concerti: a 6 anni, nel 1971, al Lirico di Milano a sentire Ella Fitzgerald con Count Basie».
Che rapporto hai con il pianoforte?
«Non ho il classico rapporto amore-odio: studio tutti i giorni (sennò sto male); tendo a mettermi in gioco, e se qualcosa non funziona me la prendo con me stesso. Quindi amore, sicuramente. Odio no».
Suoni più all'estero che in patria: ti trovi meglio?
«Mi capita così, sono stato coinvolto nei progetti di altri musicisti stranieri, ho registrato per un'etichetta tedesca e a New York. Mi trovo bene soprattutto a Parigi perché si è più sulla scena internazionale e mi sento apprezzato artisticamente».
Prossimi progetti?
«Un Eklektik 2 (i critici sono avvisati), e un disco in trio con il bassista Ira Coleman e il batterista Mike Baker, tendenzialmente più acustico».
Elena Ferrarese
© RIPRODUZIONE RISERVATA