Aldo Serena: dai Sassi alla vetta a suon di gol

Lunedì 29 Marzo 2021
Aldo Serena: dai Sassi alla vetta a suon di gol
L'INTERVISTA
È uno di quelli con un nome in famiglia e uno sull'album delle figurine dei calciatori. Così quando i suoi amici dagli spalti gridavano Tonino, Tonino! lui correva di più. Se l'allenatore lo chiamava Aldo, Aldo!, lui correva di più. La responsabilità dei due nomi un po' era stata del padre Dario: «Mia mamma aveva scelto il nome di Tonino, la nonna voleva che mi chiamassi Aldo come il nonno morto da poco. Mio padre, per non scegliere, mi denunciò come Aldo in Comune e come Tonino in chiesa. In prima elementare ho fatto la scoperta, al momento dell'appello!».
Aldo-Tonino Serena è diventato un calciatore famoso, ha vinto 4 scudetti con tre squadre diverse, un titolo di capocannoniere, una Coppa Intercontinentale, due promozioni dalla B, ha disputato l'Olimpiade di Los Angeles e due mondiali (Messico '86 e Roma '90). È il solo che ha giocato il derby Milan-Inter e quello Juventus-Torino con quattro maglie. In oltre 500 partite ha segnato una media di quasi un gol ogni due. Oggi a 60 anni fa il commentatore di calcio in tv, a Mediaset, in coppia con Pierluigi Pardo. Ha iniziato nel 1994, aveva appena lasciato il campo.
È nato a Montebelluna, nella parte alta, sopra la collina, quella di Mercato Vecchio che è il nucleo storico. «Ci chiamano quelli dei Sassi, forse perché siamo solidi e duri».
Una passione, quella per il calcio, iniziata prestissimo?
«Mi è sempre piaciuto il calcio, mio papà Dario aveva giocato nel Montello poi aveva dovuto smettere per un incidente di caccia. Da piccolo mi regalava le magliette dell'Inter, poi una zia un anno mi regalò la maglietta della Juventus e un'altra zia quella del Milan. Alle elementari aiutavo papà che gestiva con lo zio un calzaturificio per scarponi da montagna, la sera la passavo ad allacciare scarpe e a pulirle. A 11 anni sono entrato nel Montebelluna, dovevo arrangiarmi per gli allenamenti, prendevo la mia biciclettina, la sacca e via».
Quando il pallone è diventato più di un gioco?
«Devo ringraziare Gianni Rossi, che poi ha allenato Treviso e Venezia e avrebbe meritato molto di più. Quando avevo 17 anni lui allenava la prima squadra in serie D e mi ha convocato, siccome mancava chi facesse gol da mezzala mi ha promosso al centro dell'attacco. Contro il Venezia feci subito due reti. Alcune società mandarono i loro osservatori, il Montebelluna firmò per 170 milioni con Inter e Como che si erano divise il rischio».
È stato difficile fare il salto dalla provincia alla grande città?
«Ero forte di testa, inserito in un certo contesto potevo anche rendere bene, sapevo di non essere bravissimo nel dribbling stretto. Ho sempre fatto i contratti da solo con i dirigenti perché volevo che capissero il contributo che potevo dare. Non ho mai messo al primo posto il denaro, nemmeno quando dicevano che ero stato valutato tre o quattro miliardi di lire. L'impatto con Milano non è stato facile, però mi sono diplomato geometra. Per andare al campo di allenamento dovevi fare i giri, metropolitana, pullman. Mi davano 80 mila lire al mese, un terzo se ne andava in abbonamenti. Adriano Fedele, udinese, vedendomi magro mi invitava in ristorante e mi faceva servire una bella bistecca. Una grande squadra era anche questo».
Come è stato l'esordio in serie A?
«All'Inter ero la riserva di Altobelli e Muraro, a settembre Bersellini mi ha fatto esordire in Coppa delle Coppe, non avevo mai visto San Siro. A novembre 1978 ho giocato in campionato contro la Lazio, abbiamo vinto 4-0 e ho segnato, non potevo immaginare un esordio migliore. I miei genitori erano in tribuna e salendo le scale dagli spogliatoi ho sentito gridare Tonino! Tonino!. Avevano fatto un pullman con tutti i ragazzi che lavoravano con me nel calzaturificio. Mi ripetevo: Sono del Sasso non posso sbagliare questa partita. Mi ha fatto fare gol Adriano Fedele».
Per tanti anni ha cambiato una squadra a campionato. Come mai?
«Ero per metà anche del Como e dovevo giocare con loro in serie B, siamo stati promossi ma ero rimasto controvoglia e incominciavo a chiedermi se davvero volessi fare la carriera di calciatore. Mi chiama il Bari e disputo un ottimo campionato a suon di gol e l'Inter mi richiama. Per i primi sei anni ho cambiato squadra continuamente, ho dovuto forzare la mia indole tranquilla, appena riuscivo a conquistare i tifosi dovevo fare i bagagli. Quando i nerazzurri volevano Collovati dal Milan che era retrocesso in B, Castagner ha chiesto me per l'attacco rossonero ed è stata una cavalcata strepitosa; nonostante gli infortuni per me quel campionato è stato una grande festa. Così sono ritornato all'Inter da titolare, con Radice che era un condottiero da seguire».
Ma la nuova avventura in nerazzurro quanto è durata?
«Giusto un anno e quando Pellegrini acquista Rumenigge, Radice lascia per andare a Torino e mi vuole con sé. Un campionato bellissimo in granata, secondi con rammarico alle spalle del Verona, in casa veronese abbiamo vinto con una mia rovesciata molto bella. Nel derby ho segnato al 90'. Ma era destino che io non rimassi più di un anno da qualche parte: l'Inter voleva Tardelli dalla Juve e Boniperti e Trapattoni chiesero in cambio me. Ho trovato una società snella, una famiglia con Boniperti e Trapattoni. Ho vinto il primo scudetto giocando molto bene, era il campionato 1985-86; l'anno dopo siamo arrivati secondi e abbiamo vinto la Coppa Intercontinentale».
Dalla Juve scudettata all'Inter, sempre col Trap?
«Dopo due anni di Juventus, sono tornato all'Inter per quattro stagioni. Mi aveva voluto Trapattoni: campionato 1987-88, un'Inter che aveva acquistato Berti e Bianchi, Matthaus, Brehme e Diaz. E lì ho giocato proprio da centravanti con una squadra che giocava per me, con i cross, in velocità. Il contraltare era il Milan di Sacchi, moderno e fortissimo. Lo battiamo nel derby con gol mio: azione stupenda Matteoli-Bergomi, cross e incorno di precisione. Per me è stato anche il campionato da capocannoniere, con 22 reti. Vinciamo proprio tutto e quando arriva l'estate del 1991 il Trap lascia l'Inter, Pellegrini fa girare la voce che mi vuole il Milan per due anni. Avevo qualche problema fisico, non sono stato un vero protagonista, ma ho vinto due scudetti».
L'esperienza con la Nazionale?
«L'anno della Nazionale ero al Torino e c'era un magazziniere che era lì da sempre, lo chiamavamo Brunetti del campo, c'era quando Bearzot giocava nel Toro. Feci due gol al Napoli di Maradona e Brunetti mi disse a un orecchio: Guarda che tra poco ti dovrebbero chiamare in Nazionale. Della convocazione in novembre per Italia-Polonia l'ho saputo in anticipo da lui. Ero nella rosa per il Messico, ma non ho mai giocato; Vicini poi mi ha voluto per Roma '90».
L'esperienza più bella e la più drammatica in azzurro?
«Quella del mondiale romano è stata l'esperienza calcistica più forte, insieme la gioia più grande e la disperazione più grande. La gioia perché ho giocato Italia-Uruguay proprio il giorno del mio trentesimo compleanno e ho segnato. La parte drammatica è arrivata nella partita di semifinale contro l'Argentina di Maradona. Ai rigori ero tranquillo, non ero tra i rigoristi, invece Vicini mi chiama: Aldo, ne ho solo tre. Gli chiesi di provare a fare un altro giro: Ho trovato Donadoni, me ne manca uno. Appena alzato, le orecchie mi si sono bloccate non sentivo i rumori. Poi non mi ricordo niente fino al giorno dopo».
Il calcio oggi senza pubblico?
«È un altro sport. Quando guardo il calcio in tv - ed è la mia passione, la mia vita, il mio lavoro senza il pubblico è come se guardassi un'altra cosa. Lo stadio pieno è vivo, la gente sugli spalti grida, ride, impreca, piange, salta e anche il calciatore prende vita da questa emozione. Si spera di tornare presto alla normalità, non solo per il calcio sia chiaro, per tutti. Vacciniamoci».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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