LA STORIA
UDINE In Pronto soccorso «vince il lavoro di squadra. Il singolo

Venerdì 15 Gennaio 2021
LA STORIA
UDINE In Pronto soccorso «vince il lavoro di squadra. Il singolo da solo non vale niente. Tutti hanno la loro importanza rispetto al loro ruolo, ma non esiste un one man show». Una regola d'oro per Barbara Balsarin, 45 anni, originaria di San Donà di Piave, ma ormai adottata dal Friuli (vive a Nogaredo di Prato), da quando, 14 anni fa, ha cominciato a lavorare in pronto soccorso all'ospedale di Udine. Una regola che l'emergenza covid, vissuta spesso con lo sguardo sull'orlo del burrone per la carenza di personale, ha reso ancor più attuale. Tutti hanno un ruolo preciso nella complessa macchina del salvataggio di vite e quello dei cosiddetti infermieri esperti, come Barbara, in un reparto di emergenza, la prima linea delle prime linee, come quello guidato da Mario Calci, è un ruolo cruciale e insostituibile che si costruisce con anni di lavoro in trincea. Ed è uno dei problemi, perché, se gli infermieri a Udine in pronto soccorso sono comunque pochi (una trentina), quelli anziani sono ancora meno. «Siamo sotto organico perché purtroppo con la pandemia siamo divisi in area covid e area verde e spesso ci si ritrova in area verde (non covid) a gestire magari sei box da soli perché in area covid c'è bisogno di tanta gente».
IL BOOM
I numeri degli accessi in Pronto soccorso nei giorni scorsi hanno riportato alla memoria il quadro allarmante dell'autunno, quando, a novembre, si creò una fila di nove ambulanze fuori dall'ospedale. Quel 30 novembre, al pomeriggio, era in servizio anche Barbara. «Il giorno della coda delle ambulanze è stato pazzesco. Era un'immagine surreale. Non sapevamo dove mettere fisicamente i malati, perché gli spazi sono molto stretti. In una maxi emergenza vai a priorità, come richiede il nostro lavoro: dal più urgente al meno urgente. Ma l'emergenza va garantita immediatamente e se non hai il posto, eh, beh, lo combini, per riuscire a vedere di uno che non respira». Ma anche quel giorno, quando i malati sembravano non finire più, Barbara non ha perso la concentrazione. «L'esperienza ti aiuta perché sai come organizzare le cose. Non si tratta solo di vedere il paziente nel box, ma di sapere già cosa accadrà fuori dai box». Formazione universitaria (laurea in infermieristica a Padova dopo gli studi di filosofia a Bologna, oltre ad un master preso nel 2010) dopo un corso da Ota, Barbara ringrazia la sua direttrice di allora, che «pretendeva che sapessimo le cose per non diventare dei praticoni». Per diventare infermiere esperto «ci vogliono almeno 3-4 anni in cui non basta fare le cose. Ci vuole tanta teoria e la voglia di lavorare più di tutti». Lei, come altri colleghi anziani, sta formando i neoassunti, che «fanno un percorso di 3 mesi. Adesso ne abbiamo 4-5. Dopo la formazione, gli ci vorranno almeno 2-3 anni per essere autonomi».
Anche Barbara come diversi colleghi, ha avuto il covid: «Nonostante tutte le precauzioni possibili ho passato il Natale con il virus con pochi sintomi». Ma il gennaio che l'ha riaccolta in reparto non promette benissimo. «Negli ultimi giorni nell'area covid è un po' diminuito l'afflusso, ma non è diminuito per niente nell'area verde, dove c'è tantissima gente. E noi siamo sempre quelli. C'è troppa gente che vede il pronto soccorso come la risoluzione di tutti i problemi in tempo zero. Ma non è così». Il problema maggiore, per i pazienti covid soprattutto, è che «mancano posti per i ricoveri. Quella purtroppo è una costante. Spesso teniamo le persone anche 2-3 giorni perché mancano i posti letto covid. Ma accade spesso anche in area verde. Viene garantita l'assistenza di base. Per quello che si riesce a fare si fa. Spesso la stanchezza è tanta. Non siamo dei missionari, siamo dei professionisti: cerchiamo di fare il meglio con le risorse che abbiamo». In tanti anni, di vite ne ha salvate parecchie, Barbara. Ma negli ultimi tempi le è rimasto nel cuore un signore sulla sessantina. «Dovevamo fargli la ventilazione non invasiva e mi hanno chiamato per mettergli su la maschera. Lui continuava a dire: Adesso muoio. Non ho fatto nulla di particolare, gli sono solo stata vicina e gli ho spiegato perché la maschera gli sarebbe servita. E lui si è fidato». Ora, con i colleghi, spera «che si riesca a trasmettere ai neoassunti la passione per questo lavoro. L'infermiere di Pronto soccorso non è un Rambo o un tuttofare. È un professionista che sa fare molte cose perché se le è studiate prima».
Camilla De Mori
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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