IN RIANIMAZIONE
PORDENONE Ore 12.30, il giro tra i pazienti che lottano contro

Lunedì 6 Aprile 2020
IN RIANIMAZIONE PORDENONE Ore 12.30, il giro tra i pazienti che lottano contro
IN RIANIMAZIONE
PORDENONE Ore 12.30, il giro tra i pazienti che lottano contro il Covid-19 nella terapia intensiva allargata dell'ospedale di Pordenone è terminato e per il primario, Tommaso Pellis, è il momento del confronto con il collega Roberto Bigai. I pazienti sono 15. Tutti del Pordenonese. Altri tre sono già stati trasferiti nei reparti Covid, uno è guarito, cinque sono stati mandati a Udine, tre a Trieste e quattro a Gorizia. «La nostra provincia - spiega Pellis - ha avuto un pesantissimo afflusso di malati critici. Non abbiamo pazienti dalla Lombardia perchè non avevamo posti. Appena ne stabilizzavamo uno, ne arrivava un altro grave che non poteva sostenere il trasferimento».
Dottor Pellis, quando ha capito che si andava incontro a un'emergenza di queste proporzioni?
«Quando il 21 febbraio c'è stata l'unità di crisi a Palmanova. La risposta del Friuli mi è piaciuta, abbiamo fatto rete tra terapie intensive, con la direzione regionale della Salute e con il nostro direttore sanitario Michele Chittaro. Avevamo un piano di espansione della terapia intensiva, che normalmente ha dieci posti letto. Eravamo pronti ad accogliere un numero limitato di pazienti: tre. All'inizio li trasferivamo a Udine. La cosa importante è che siamo riusciti a iniziare in modo graduale comprendendo le difficoltà che dovevamo affrontare per il personale che lavora in trincea, garantire la sicurezza e l'assistenza ai malati».
Come siete strutturati?
«Abbiamo sfruttato il blocco operatorio e occupato la terapia intensiva post operatoria. Con uno scatto di reni siamo passati da 10 a 12 posti letto. Poi anche questo non bastava. Abbiamo occupato la stroke unit per i malati convenzionali e tutte le strutture deputate a pazienti critici o sub intensivi ci hanno dato una mano. Anche i neurologi ci hanno dato ospitalità. Adesso abbiamo tre terapie intensive e ci sono due sale operatorie trasformate in sub intensiva pneumologica».
La reazione del personale?
«È diventato una grande famiglia in cui le emozioni si spostano da uno all'altro. Sono orgoglioso di loro. Si sono accorti che le protezioni funzionano e che se seguono le indicazioni possono lavorare con tranquillità. Paradossalmente sono più sereni quelli che lavorano nelle zone sporche. In terapia intensiva - interviene Bigai - viene praticata la musicoterapia, venerdì si sono accorti che non c'era più la musica e l'hanno riaccesa, significa che hanno superato l'ansia e ritrovano le vecchie abitudini. Ci sono poi le donne delle pulizie. Non hanno detto niente: in silenzio entrano, puliscono e raddoppiano i turni».
Come sono i contatti con i pazienti?
«L'infermiere - spiega Bigai - è abituato a raccontare al paziente che dorme tutto quello gli sta per fare: abbi pazienza, adesso ti giro. È una forma di rispetto - aggiunge Pellis - dove la medicina non può ci prendiamo cura delle persone, anche quando stanno morendo».
Avete 4 estubati, che cosa vi dicono quando li svegliate?
«È quando li addormenti che sono pieni di angoscia, come il signor P., che non ha ancora 60 anni. Ci ha detto ho paura di morire. Non è facile addormentare una persona che non sai se si sveglierà. Le nostre cure sono come i punti su una ferita: le macchine aiutano a guarire una ferita, ma non fanno una cicatrice, quella la fa l'organismo. La medicina non ti rende immortale».
Il primo estubato?
«È stato un 78enne con molte malattie. Per noi è stato un insegnamento. Siamo qui per aiutare, ci sono situazioni che riusciamo a deviare, altre che per quanto ci ostiniamo hanno una parabola discendente».
Che cosa provate quando dovete lasciarli andare?
«Sono graffi nell'anima, ma non è questo il momento di lasciarci distrarre dal dolore. Don Mario Vatta ci ha chiamato, era preoccupato di noi, gli ho detto che il più bel sostegno è sapere che verrà a trovarci dopo, perchè questa è una fabbrica di successi e di orrori, adesso non ci possiamo fermare, ma dopo dovremo versare queste lacrime. Penso al ragazzo di 44 anni... Anche noi stiamo imparando, i protocolli terapeutici cambiano, siamo un po' disarmati, non abbiano linee sicure. Allora ti chiedi: ho fatto tutto? Quando ti scappano via così, ti pesa. Sono persone che avevano una vita attiva, in cui la malattia è entrata a gamba tesa. Sappiamo che dobbiamo comprare più tempo possibile per più persone possibile».
Tanto dolore è compensato da qualche gioia?
«Sì, le videochiamate ai parenti. È il momento in cui cadono le lacrime. Le famiglie devono sapere che non sono soli. Ci fa rabbia che chi non lavora con noi veda questi pazienti come persone che possono infettarci. Ma finchè non inventiamo il vaccino potrebbe toccare anche a noi».
Il rapporto con gli altri reparti?
«C'è grande coesione, il sistema ha risposto molto bene su tutte le linee, dal 118 ai periferici. San Vito riceve tutti i pazienti che non possiamo seguire con la dovuta assistenza. È stata una risposta armonica e positiva, un travaso di professionalità incredibile che resterà per sempre».
Cristina Antonutti
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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