«Sbagliato cancellare il marchio Prosecco»

Mercoledì 11 Settembre 2019
L'INTERVISTA
TREVISO Rinunciare al brand prosecco è un errore, ma se i produttori decidono così non si può fare altro che prenderne atto. Questo il pensiero del governatore Luca Zaia che, comunque, non concorda con chi pensa di poter fare a meno di un nome forte almeno quanto, se non di più, quello dello champagne. Ma se la divergenza d'opinione ci può stare, il governatore non tollera chi mette in discussione la normativa del 2009 firmata quando era ministro dell'Agricoltura che stabilisce le zone dove può essere prodotto il prosecco: nove province tra Veneto e Friuli. Dieci anni fa questo provvedimento mise fine a una sorta di assalto alla diligenza: di prosecco si cominciava a parlare anche in zone improbabili come l'est Europa o il meridione. Chiunque poteva piantare la vite e produrre. Zaia invece, da ministro, approfittando delle legislazione europea, riuscì a strappare il diritto a definire prosecco solo il vino prodotto in massima parte in zone ben delimitate del Veneto e in minima parte in aree altrettanto circoscritte del Friuli, il resto si sarebbe dovuto chiamare glera. Inoltre venne introdotta la denominazione Docg per i produttori dell'area collinare tra Valdobbiadene e Conegliano; Doc per il resto del territorio interessato. Oggi, a distanza di un decennio, c'è però chi si lamenta. L'azienda Col Vetoraz ha annunciato di aver cancellato dalle proprie etichette la parola prosecco perchè troppo generalizzante, preferendo puntare invece sulla denominazione Valdobbiadene Docg, a suo modo di vedere più identitaria. E ha però tirato in ballo il provvedimento del 2009, accusato di aver creato confusione per una scelta esclusivamente di natura politico-economica.
Governatore Zaia, partiamo dal primo punto è sensato rinunciare alla parola prosecco nelle etichette?
«Il popolo è sempre sovrano e in questo caso il popolo soni i produttori. Un'azienda può fare la proposta di togliere il nome prosecco, ma poi bisogna modificare anche il disciplinare perché le etichette seguono delle norme precise».
Ma lei condivide?
«Immagino che i produttori di prosecco vadano in giro per il mondo e sappiano benissimo cosa funziona e cosa no. Poi si confronteranno tra loro e decideranno cosa fare. Certo: se un'azienda ha una valanga di soldi da investire in comunicazione per cambiare il brand, magari nel giro di qualche anno qualche risultato lo ottiene. Però ottiene anche che i consumatori che vogliono prosecco poi se lo vadano a cercare dove lo trovano scritto in etichetta».
E il rischio quale potrebbe essere?
«La Docg produce sessanta milioni di bottiglie all'anno. Rinunciando alla parola prosecco sicuramente qualche bottiglia sul mercato verrà persa».
In Francia i produttori rinuncerebbero mai alla parola champagne in etichetta?
«Diciamo che aziende simbolo con il Dom Perignon sono lo champagne e possono anche non metterlo in etichetta. Ma tutti gli altri non si sognerebbero mai di farlo. Detto questo non discuto le scelte di un' azienda, anzi le vedo con rispetto. Ma se la cosa diventa un fenomeno territoriale, allora dico la mia».
Alla fine viene messa sotto accusa anche la sua normativa del 2009, quando era ministro dell'Agricoltura, che identifica le zone del prosecco.
«Incredibile. Prima di quella normativa chiunque poteva prendere la vite del prosecco, piantarla e a produrre. Lo si poteva fare nelle nostre zone, dove storicamente questo vino è nato, ma anche altrove: Sicilia, Puglia, Piemonte, Emilia e in giro per il mondo».
E come fu possibile rimediare a questa situazione?
«Grazie a una legge comunitaria che consentiva di legare il vino alla terra di produzione. Riuscimmo quindi a stabilire che si sarebbe potuto chiamare prosecco solo il vino prodotto in nove province tra Veneto e Friuli, ovvero quelle zone dove c'era già la produzione Doc poi diventata Docg, come l'area collinare di Conegliano-Valdobbiadene; e in quelle con denominazione Igt poi diventata Doc. Invece la stessa vite piantata da un'altra parte avrebbe prodotto un vino diverso, il glera».
Risultati?
«La richiesta di prosecco è aumentata e la produzione di bottiglie, in queste zone, è passata da 250 milioni di bottiglie a 650 milioni. E sono enormemente cresciuti i guadagni».
Però c'è chi non è soddisfatto e ritiene che mettere prosecco superiore della Docg e prosecco della Doc sia stato un errore perché genera confusione.
«Chi ragiona così dovrebbe invece pensare che senza quel provvedimento oggi tutti potrebbero produrre prosecco, in qualsiasi territorio».
Altra accusa: il provvedimento del 2009 è stata una scelta fatta per motivazioni esclusivamente politico-economica.
«Ma quali sarebbero queste motivazioni? Assurdo, il decreto è stato fatto consultato tutti i protagonisti del territorio e passando per commissioni. Altri in Italia questa operazione non sono riusciti a farla. Vorrei che i consorzi di tutela della Docg e della Doc facessero sentire la loro voce in questo dibattito, non possono rimanerne fuori. Se qualcuno ha problemi di gestione non può prendersela con quella norma».
Ma perché nella zona del prosecco è stato inserita anche la pianura e alcune aree del Friuli?
«La legge imponeva di considerare tutte quelle zone dove la produzione di un certo tipo di vino ha una sua storia e tradizione. In Friuli Venezia Giulia, vicino a Trieste, c'è un paese che si chiama Prosecco, tanto per fare un esempio. E tutti dovevano essere d'accordo. Non sarebbe mai passata una legge che avesse identificato come zona di produzione del prosecco solo l'area di Conegliano-Valdobbiadene».
Insomma, si è dovuto trovare una mediazione.
«Mattiamola così: o si sceglieva di condividere il prosecco con pochi, o si accettava di doverlo condividere col mondo».
Ma le colline di Conegliano-Valdobbiadene hanno una loro specificità.
«E infatti viene riconosciuta con la denominazione Docg. Nessuno può permettersi di mettere in dubbio la qualità e la storicità del Prosecco Docg e l'agricoltura eroica che lo sostiene. Viene definito superiore, termine comprensibile anche in inglese. E sinceramente insisterei su questo piuttosto che pensare a eliminare la parola prosecco».
E quindi che dice a chi si lamenta?
«Hanno avuto una normativa che li tutela, sono diventati patrimonio dell'Umanità. Purtroppo al mondo l'ingratitudine esiste».
Paolo Calia
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