Pittis, 25 anni di Treviso «Difficile starci lontano»

Sabato 23 Giugno 2018
L'INTERVISTA
TREVISO È un amore profondo, ma non è sbocciato subito. Del resto tutti i grandi amori nascono così: prima non ci si capisce, poi ci si annusa da lontano e alla fine esplode un sentimento intenso e imprevedibile. Il rapporto tra Riccardo Pittis e Treviso è nato così. Lui, icona del basket italiano, milanese di nascita e di tradizione, si sente ormai trevigiano a tutti gli effetti. Qui ci vive da 25 anni e, dentro le Mura, si trova benone. «A Treviso - ricorda - ci ho passato praticamente la metà della mia vita, la più intensa. Ho vissuto più a Treviso che a Milano».
È arrivato a Treviso nel 1993, grande colpo della Benetton basket.
«E sono arrivato in un mondo del tutto diverso rispetto a dove vivevo prima. E all'inizio non è stato facile».
Milano e Treviso negli anni Novanta: realtà distanti anni luce.
«E non solo: la Treviso di quegli anni non era quella di adesso. Era una città decisamente diversa: più piccola, più provinciale e non così viva come oggi. E io avevo 25 anni».
In poche parole: arrivare qui è stato un trauma.
«Esatto: è stato un impatto traumatico. Non sono riuscito ad adattarmi subito ai nuovi ritmi, alle modalità di vita dei trevigiani. Il primo anno in particolare è stato complicato».
Difficile pensare che un milanese possa traumatizzarsi arrivando a Treviso.
«Avevo 25 anni, esperienze diverse alle spalle. Racconto un aneddoto. Arrivato a Treviso dovevo espletare tutte le pratiche burocratiche: anagrafe, allacciamento del gas, della luce e cose del genere. Un bel giorno metto quindi la sveglia alle 7,30 pensando una giornata intera in coda tra mille pratiche. Alle 8 ero davanti al primo ufficio. Alle 10,30 avevo finito tutto: non sapevo più cosa fare, a Milano avrei perso tutto il giorno. E sono tornato a letto».
In campo però, tutti questi problemi non si vedevano.
«In realtà il primo anno sì, qualche problema c'è stato. Forse le caratteristiche della squadra non erano adatte a me, il rapporto con l'allenatore (all'epoca Maurizio Frates ndr) non era dei migliori. Diciamo che non è stato il miglior anno della mia vita».
E quando è scoccata la scintilla con questa città?
«Non c'è stato un momento specifico, ma una serie di fattori che si sono incastrati. Per quel che riguarda il basket la svolta è stata l'arrivo di Mike (D'Antoni ndr) e di due amici come Pessina e Ambrassa. Il miglioramento della parte sportiva mi ha aiutato nell'inserimento in città, a capirne i ritmi, a farmi anche qualche amicizia extra-basket».
Da lì è stato tutto in discesa.
«Ho cambiato casa quattro volte. Inizialmente non volevo venire in centro perché pensavo che, in una città così piccola, ci sarei arrivato comunque facilmente. Prima ho abitato in vicinale delle Corti, poi a Lancenigo, poi in zona Fiera, solo nel 99 sono arrivato ad abitare dentro le Mura. E mi sono reso conto che stare in centro è tutta un'altra cosa. È l'amore per questa città è cresciuto esponenzialmente».
Si sente più trevigiano o più milanese?
«Adesso più trevigiano. Ripeto spesso che, quando vado a Milano, mi tocca usare Gps o mi perdo. E dopo due o tre giorni lontano da Treviso ne sento la mancanza. Nella vita non si può mai dire, ma dovrebbe accadere qualcosa di veramente importanti per convincermi a spostarmi».
E come è cambiata la città in questi 25 anni?
«Nel 1993 sembrava una cittadina del Wyoming: piccola, carina ma con molto poco da offrire. C'era un'unica pizzeria con un po' di movimento, la Piola, un paio d'osterie di riferimento. Ma se volevi fare serata, a 25 anni capita, dovevi andare al Terminal di Mestre».
E adesso?
«Sarò cambiato io, sarò diventato più vecchio, ma la città offre tantissime cose in più. È cresciuta, migliorata, si è aperta al turismo. E poi ho i miei luoghi del cuore: le osterie, la Restera dove vado spesso a camminare, le bancarelle e i negozietti della Pescheria»
Ha anche tentato la via della politica: nel 2013 stava per candidarsi sindaco.
«Per fortuna sono rinsavito in tempo. In realtà non ero così convinto di fare il sindaco, lo erano altri che mi vedevano in quel ruolo. Fortunatamente non se n'è fatto niente: per fare il sindaco bisogna esserci portati».
Paolo Calia
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